La vittoria di “Parasite” agli ultimi Premi Oscar non ha solo concesso meritati riconoscimenti al regista Bong Joon-ho ma anche al cinema sudcoreano.
Un cinema nato tra gli anni ’50 e ’60 e che ha poi subito una vera e propria esplosione dall’inizio del ventunesimo secolo, sia in patria che in occidente.
A differenza delle produzioni provenienti dalla Corea del Nord, il cinema sudcoreano si contraddistingue per la creatività e il coraggio dei suoi registi.
Chi sono i maggiori rappresentanti di questa potente corrente cinematografica che ha segnato la nostra epoca a tal punto da ammaliare Hollywood?
Park Chan-wook
Insieme al collega Bong Joon-ho, Park Chan-wook è sicuramente uno dei registi sudcoreani più famosi. Certamente quello più estremo e perfido.
Che si tratti del dramma vampiresco di “Thirst” o la stramba storia d’amore di “Sono un cyborg, ma va bene”, Chan-wook caratterizza tutti i suoi film con uno stile visionario e un umorismo nero che rendono anche le storie più tragiche originali.
Persino il suo unico film in lingua inglese, “Stoker”, non è un thriller psicologico scontato ma piuttosto un cupo racconto di formazione e un omaggio ad Alfred Hitchock, da sempre uno dei modelli prediletti del regista.
L’opera più conosciuta di Chan-wook è senza ombra di dubbio la Trilogia della Vendetta, composta dal crudo “Mr. Vendetta” (film dalla sottile ma spietata critica sociale), il bellissimo “Old Boy” e il disperato “Lady Vendetta”.
È in particolare “Old Boy” ad essere il titolo più rappresentativo di una filmografia basata sui virtuosismi tecnici ma anche su una sensibilità che va a braccetto con una crudeltà talvolta estrema eppure mai gratuita.
Questo è Park Chan-wook.
Kim Ji-woon
Kim Ji-woon è invece un regista diverso. Caratteristiche principali della sua filmografia sono una padronanza della macchina da presa eccellente e soprattutto il continuo bisogno di sperimentare coi generi.
Commedia, film d’azione, horror, gangster movie, thriller, western e altri ancora. Ji-woon li ha diretti quasi tutti con risultati forse non sempre eccellenti ma con un coraggio encomiabile e un divertimento contagioso.
Tra il thriller “I saw the Devil” (tuttora inedito in Italia) e i più politici “L’Impero delle Ombre” e “Illang: uomini e lupi”, Ji-woon riesce sempre a sorprenderci.
Una menzione speciale se la meritano “Il Buono il Matto il Cattivo”, scatenato omaggio a Sergio Leone, e soprattutto “Bittersweet Life”, film dalle tinte noir che omaggia ripetutamente Scorsese e De Palma.
Lee Chang-dong
Elemento che mi ha sempre colpito del cinema orientale è l’incredibile sensibilità con cui registi e sceneggiatori trattano il dramma umano, spesso legato al contesto sociale e politico della Corea.
Lee Chang-dong, classe 1954 e ministro della cultura e del turismo dal 2003 al 2004, è un regista che si guarda attorno e che riesce a conferire una anima ai suoi personaggi spesso in balia degli eventi.
La sofferente esistenza di un uomo in “Peppermint Candy”, il dramma familiare di “Oasis” e lo smarrimento di un giovane in “Burning” sono solo alcuni dei ritratti umani esplorati da Chang-dong.
Uno dei suoi migliori lavori (nonché uno dei pochi giunti in Italia) è senza ombra di dubbio “Poetry”, la storia di un’anziana signora di Incheon che trova nella poesia uno spiraglio di luce in un’esistenza cupa e dominata talvolta dalla meschinità.
Kim Ki-duk
I frequentatori abituali del festival di Venezia come il sottoscritto non possono non essersi imbattuti anche fugacemente nell’eccentrica figura di Kim Ki-duk, uno degli autori cinematografici orientali più amati degli ultimi vent’anni.
“Faccio film per tentare di comprendere l’incomprensibile”. Queste sono le parole del regista quando cerca di descrivere il suo cinema contradditorio poiché è spietato eppure tenero nel raccontare storie che parlano di odio e violenza come di amore e quiete.
Film come “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”, “Ferro 3”, “La Samaritana”, “Time” e i più recenti “Pietà” e “Il prigioniero coreano” parlano di questo: un mondo popolato da esseri umani che si attraggono e respingono allo stesso tempo.
Proprio come “Soffio”, un film in cui una casalinga disillusa riesce a trovare nuovi stimoli visitando e intrattenendo un condannato a morte che non sembra avere più motivi per vivere. La ricerca della vita e la resa verso la morte s’incontrano e tentano di comprendersi.
Bong Joon-ho
Ultimo ma non meno importante è ovviamente il fresco di Oscar Bong Joon-ho, regista e autore che ha da sempre ottenuto grandi successi e riconoscimenti sia in patria che all’estero.
Dal suo contorto “Memories of Murder” (film che ha influenzato “Zodiac”) al monster movie “The Host” e persino nella sua escursione americana “Snowpiercer”, Joon-ho ha sempre dimostrato di avere un dono.
Joon-ho è un regista capace di esporre un’ analisi sociale netta (la lotta di classe) senza però rinunciare al gusto del racconto e all’intrattenimento.
“Parasite” è lì a dimostrarlo. Un ritratto grottesco della società coreana essenzialmente drammatico ma che non rinuncia all’ironia nera e a riflessioni tutt’altro che banali.
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