Cara società, facciamo un discorsetto sull’abilismo

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Di Giorgia Bonamoneta

11 aprile – Sì, è passato qualche giorno ma bisogna digerirle certe affermazioni abiliste- scorrevo tranquillamente la timeline di Instagram, quando mi sono imbattuta nel post dell’attivista Sofia Righetti. Per chi non la conoscesse, Sofia Righetti è un attivista per i diritti animali e umani, è speaker, modella, una vera rockettara e campionessa di Sci Alpino paraolimpico nel 2014. Insomma, con l’abilismo ci combatte tutti i giorni.

Un bel post? No, non proprio. “Lo Stato ha sospeso le assunzione delle persone disabili” a causa dell’emergenza coronavirus. È scritto nero su bianco nella circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Abilismo - photo credits: Sofia Righetti | Instagram
Abilismo – photo credits: Sofia Righetti | Instagram

Abilismo è dimenticare le persone disabili

Partiamo dal fatto che spesso le persone disabili vengono assunte per rispettare un numero imposto (1 persona ogni 15, come previsto dalla legge 68/99).
Il solito modo per ribadire la scarsa importanza data al singolo individuo, che viene invece definit* soltanto dalla propria disabilità.

I posti di lavoro prevedono ruoli ad alto rischio, soprattutto durante una pandemia mondiale e si tende a ignorare, al contrario, le abilità intellettive e/o studi della persona, nonché i bisogno fisici e mentali.
È una gran rottura rispettare la vita altri, compresa la necessità di un lavoro degno, vero? Ma in un anno di pandemia e crisi dovremmo essercene resi conti o no?

“Categoria protetta” è una definizione abilista?

Ma avete le categorie protette!”, giusto e allora non ci lamentiamo più. Al pari delle quote rosa, le categorie protette sono quel contentino necessario per le persone disabili e un enorme fastidio per le aziende.
Tanto che preferiscono pagare multe salate e sacrificare le persone disabili per il bene della loro amata firma.

Ma abilista è, prima di tutto, la nostra società che associa la disabilità con la pietà, la sofferenza, il fardello. E, ovviamente, il bisogno di continui buffetti sulla guancia al posto di un lavoro. Dopotutto le bollette si pagano da sole.

L’abilismo non esiste in Italia

Al pari della frase che ci piace raccontarci dopo un evento di violenza a sfondo razziale, le persone disabili (soprattutto se hanno una disabilità non visibile) si sentono dire che “in Italia l’abilismo non esiste“. Ma è davvero così?

Scenario: dibattito su un gruppo universitario. Ci si aspetta, anche per via del corso di studi in Storia e Storie del mondo contemporaneo, che ci sia la tanto chiacchierata “mente aperta”.
Si discute del post di Sofia Righetti sopra citato e il dibattito evidenzia fin da subito lo stigma, la mancanza di educazione su certe tematiche e soprattutto il disinteresse radicato nelle persone privilegiate.

Spesso vanno a braccetto privilegio e menefreghismo, meglio ancora privilegio e mansplaning. Così sotto un post che denuncia l’impossibilità di essere assunti per una disabilità, ci si sente rivolgere espressioni come: “Forse è solo ignoranza personale sul tema“, “La società egualitaria è un’utopia“; con tanto di ciliegina sulla torta: “mi sembra una reazione esagerata da parte di persone che vedono oppressione in un errore“.
Il colpevole quindi è sempre il solito “politicamente corretto”.

Abilismo è escludere le persone

Quando la discussione pareva giungere a termine, ecco che arriva l’ennesima conferma della mancanza di comprensione dei semplici concetti di “discriminazione” e “privilegio”.
Un paio di messaggi basati su definizioni retrograde di economia e in un certo senso assimilabili al darwinismo sociale. Suonavano così: “Si sa, signora mia: chi non si adatta agli standard della società non può farne parte”.

Questa è una delle ragioni per cui bisognerebbe ascoltare e validare le parole di chi vive certe situazioni. Passare il microfono. Credere sempre.

Ciò che maggiormente sconcerta è l’assenza di partecipazione da parte delle altre persone. Mi spiego meglio, in un gruppo di un centinaio di persone hanno partecipato in cinque o sei al dibattito, mentre le visualizzazioni ai messaggi dicevano ben altro. La paura di esporsi e il non saper cosa dire è comprensibile, ma in certe situazioni “chi non prende parte sceglie di stare dal lato dell’oppressore“, cita una celebre frase.

Ciao! Il mio nome è Martina, anche se tutt* mi chiamano Marti sin da quando sono piccola, ho 23 anni e da un paio d’anni sono impegnata nel mio piccolo a fare attivismo sul mio blog Instagram Revolution social(e).
Sono una ragazza CHD, ossia nata con una malattia congenita cardiaca e queer (pansessuale).
Le mie più grandi passioni sono l’arte e il cinema, infatti il mio sogno è diventare sceneggiatrice. L’altra mia passione è aiutare le persone, motivo per cui ho iniziato a fare attivismo: alzare la voce, supportare e prendere per mano chiunque non abbia questa fortuna mi fa stare bene.

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Articolo di Giorgia Bonamoneta, in collaborazione con Martina Botta.