Fuor di retorica, che Charles “Chuck” Edward Allen Berry abbia sempre avuto la tendenza, e spesso la necessità, di sfidare convenzioni, pratiche e culturali, e di portare le cose ad un livello nuovo, è stato chiaro fin dalla tenerissima età.

Figlio di afroamericani nipoti di ex schiavi trasferitisi dal profondo sud rurale a St. Louis nel periodo della prima guerra mondiale, Chuck nasce in una realtà che sembra aver solo muri da sfidare e saltare. Nonostante la condizione più che dignitosa della propria famiglia – la madre Martha è una delle pochissime afroamericane di allora ad aver avuto accesso agli studi superiori – la St. Louis degli anni ’20 è un posto dove gli afroamericani “devono saper stare al proprio posto”.  

Chuck Berry: bianchi di paura

In città vige un segregazione de facto: la rigorosa divisione di ceto tra bianchi ed afroamericani è una delle colonne portanti dell’economia, e Chuck vedrà il primo uomo bianco solo all’età di tre anni. E solo perché un grosso incendio di quartiere fa arrivare fino a lì i locali vigili del fuoco. “Pensavo che i loro volti fossero così sbiancati per la paura di doversi avvicinare a un incendio tanto pericoloso” ebbe modo di ricordare. “Poi papà mi spiegò che erano semplicemente bianchi, e che la loro pelle era sempre bianca, anche di notte”. Inizia ad avere a che fare con la musica all’età di sei anni, cantando nel coro della chiesa battista dove predica il padre.

Una volta adolescente, la buone condizioni economiche della famiglia gli permettono di venire iscritto alla Sumner High School, una prestigiosa scuola privata per afroamericani, la prima in assoluto ad ovest del Mississippi. L’annuale spettacolo di fine anno è l’occasione per gli studenti di esibirsi e misurarsi con le più alte forme della tradizione musicale afroamericana, gospel e musica sacra su tutte. Ma Chuck ha qualcos’altro in mente. In determinati circuiti il blues è la musica di maggior successo del momento, e la più identitaria soprattutto per il proletariato e sottoproletariato nero della città, ma è ancora decisamente mal digerita dalle nascenti istituzioni afroamericane stesse, come la Sumner High School.

Chuck Berry e quel blues così sconveniente

Tematiche troppo crude quando non scottanti, poco consone all’immagine che vuole darsi quella minuscola avanguardia di classe media afroamericana. Accompagnato da un chitarrista, Chuck sfida la rigidità dell’istituto e porta sul palco “Confessin’ the blues” di Jay McShann. La direzione è indignata, ma la reazione di quel piccolo pubblico è entusiasta. Chuck intravede una traccia di quello che può essere il proprio percorso, e chiede in regalo una chitarra. Insegnante d’eccezione, la leggenda jazz Ira Harris. A interrompere brutalmente la sua crescita artistica, i tre anni di riformatorio che sconta con un paio di amici in conseguenza di una serie di rapine che il trio fa con una pistola casualmente ritrovata in un parcheggio durante quello che sarebbe dovuto essere un viaggio verso la California e nuovi sogni.

Chuck viene rilasciato per buona condotta il giorno del suo ventunesimo compleanno e la primissima cosa che fa è riprendere il mano la chitarra. Inizia a battere a tappeto i club di St. Loius con piccole band locali, iniziando a farsi conoscere come travolgente show-man. C’è lo show, e l’esibizione nell’esibizione: il rapporto che Chuck sviluppa con la chitarra ha qualcosa di indecentemente carnale, sessuale. La sua mimica facciale unica tradisce una nuova forma di comunicazione e di energia che non si è ancora vista da nessuna parte. E poi c’è il duckwalk, quel saltellio a gambe piegate su una gamba solo che diventa presto il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Nel 1952 entra a fare parte del Sir John’s Trio del pianista jazz Johnny Johnson e imbastardisce la cifra jazz e pop della band con il suo inarrestabile trasporto musicale e fisico che vede già oltre.

Il primo rock’n’roll della storia

Ma St. Louis inizia a stargli stretta e nel 1955 si sposta a Chicago in cerca di un buon contratto. Conosce il leggendario Muddy Waters, che gli suggerisce di proporsi alla Chess Records. Chuck presenta loro un pezzo fresco fresco di scrittura, “Maybelline”. Alla Chess non credono alle proprie orecchie. Quello che gli ha appena proposto questo sconosciuto di St. Louis è senza dubbio ottimo blues, ma coniugato secondo un lessico musicale e attitudinale nuovo. Roba fresca, eccitante e irresistibile. Il singolo viene immediatamente registrato e stampato e nel giro di pochi mesi raggiunge la posizione numero uno delle classifica R&B e la numero cinque di quella pop. A posteriori, in molti riconosceranno in “Maybellene” la prima canzone rock’n’roll della storia.

Da questo momento, ogni singolo prodotto da Chuck Berry con la Chess Records raggiunge o quasi la vette delle classifiche di riferimento, con la sola eccezione di “You can’t catch me”, creando di fatto un sempre più ampio campo comune in cui gioventù bianca ed afroamericana hanno l’occasione di trovarsi e confrontarsi. Con “Roll over Beethoven” nel 1956 fa addirittura il salto dell’Atlantico, entrando nelle classifiche tedesche. L’anno dopo, “Sweet, little sixteen” raggiunge la vetta della classifica generalista e sfonda in UK. Ma se ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma, è nel 1958 che Chuck Berry scrive definitivamente il proprio nome nella storia della musica contemporanea.

Johnny B. Goode

Johnny B. Goode” è un pezzo che ha in cantiere già da tempo, su cui, come altri, lavora tra un impegno e l’altro. Johnny è un ragazzo semi-analfabeta del deep south con un grande talento per l’unica cosa che possiede, una chitarra. Un grande futuro sembra prospettarglisi davanti. Inizialmente pensato come “colored boy”, il testo originale venne poi cambiato in “country boy”, affinché il messaggio sia il più universale possibile e sappia parlare anche al pubblico bianco, che per il rock’n’roll inizia davvero a perdere la testa. A ispirare Chuck Berry pare sia stato quel Johnny Johnson con cui il chitarrista ha diviso i palchi di St. Louis, ma presto il reale movente del testo si sfuma nella leggenda. Diventando di fatto autobiografica, e poi universale nel momento in cui il rock’n’roll sfonda la sottile parete del pubblico bianco.

In molti in futuro sosterranno che “Johnny B. Goode” rappresenti la prima canzone a delineare i contorni di quella che in futuro entrerà nell’immaginario popolare come la figura della rockstar. Ottava in classifica generale e secondo il quella dedicata al R&B, “Johnny B. Goode” travolgerà la cultura popolare con ancora maggiore efficacia di quanto fatto con le classifiche.  Settima classificata nella classifica redatta da “Rolling Stones” sulle 500 più grandi canzoni di tutti i tempi è stata probabilmente coverizzata da qualsiasi gruppo della storia della musica. Nel 1985 Marty McFly (Michael J. Fox) ne fa un indimenticabile tributo sul palco della festa scolastica del 1955 di “Ritorno al futuro”.

Andrea Avvenengo

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