Cimitero dei feti: l’aborto non è un film horror

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Di Redazione Metropolitan

Una serie di croci bianche, storte e spoglie, con nome e cognome di moltissime donne. La loro colpa è quella di essere ricorse all’aborto. Alcune di esse hanno raccontato l’ingiustizia subita, ed è iniziata così una polemica che ha coinvolto gli ospedali (in particolare il San Camillo di Roma), i garanti della privacy e L’Ama.  

Una vicenda che ha portato nuovamente in auge nei media italiani il dibattito tra “pro-life” e pro-choice. Con BRAVE vogliamo parlare, però, di come la vicenda del “cimitero dei feti” si leghi a una drammatizzazione eccessiva dell’aborto, che ci viene raccontato troppo spesso come fosse un film horror.

i feti non sono “corpicini”

Nonostante Repubblica racconti la vicenda nel modo più laico possibile, non esita a definire i feti “corpicini” , rendendo ancora più macabro il tutto.

Stralcio dell’articolo di Repubblica sul cimitero dei feti.
Stralcio di un articolo di APG23 sulla sepoltura dei feti

Così come molte altre narrazioni, che, cercando la lacrima facile, rischiano di riaprire vecchie ferite in chi ha vissuto l’interruzione di gravidanza in modo traumatico. L’umanizzazione eccessiva, attraverso termini come “bambino”i, o “uccisione/omicidio”, è un’arma ideologica che i “pro-vita” usano per rendere l’IVG il più spiacevole possibile. Il processo è lo stesso che sta alla base del cimitero dei feti: colpevolizzare le donne, ignorando i loro diritti, la loro privacy e la loro salute. Ovvero, quello che fanno gli attivisti pro-life da sempre. Proprio per questo è molto discutibile l’uso di un linguaggio macabro anche da parte di giornali laici.

L’aborto è un’esperienza soggettiva

La legge italiana, ad oggi, non obbliga nessuna donna alla sepoltura in caso di aborto terapeutico. Le proposte che nel 2019 furono fatte dai partiti di Centro Destra, non diventarono mai legge. Questo perchè l’IVG è un’esperienza estremamente soggettiva e in quanto tale va rispettata. Il sentimentalismo in questo caso, non spetta ai giornali, ma semmai alle donne che hanno vissuto un aborto in modo diretto. Nessuno dovrebbe sminuirne la portata emotiva, ma nemmeno imporre una narrazione necessariamente traumatica e colpevolizzante. Invece di imporre il nostro punto di vista, sarebbe bello iniziare a vedere le donne come soggetti diversificati e ascoltare e rispettare le loro esperienze.