Benvenute e benvenuti su CoffeeNSupes, la rubrica sui supereroi da leggere in pausa caffè!
Tazzina alla mano, vi accompagnerò in un viaggio nel tempo e nello spazio alla scoperta dei film sui supereroi più e meno conosciuti fino a spingerci nelle profondità della psicologia, filosofia, sociologia, mitologia e narrativa nascoste tra le righe degli affascinanti eroi e villain moderni.
In questo appuntamento prenderemo spunto dal film The Amazing Spider-Man per capire come mai molti dei nostri tanto amati eroi sono orfani. Ma prima, rewind: nelle puntate precedenti abbiamo analizzato la figura di Spiderman nella trilogia a lui dedicata diretta da Sam Raimi. Abbiamo parlato della sua genesi e del suo senso di responsabilità, del concetto di doppio oscuro per finire con la differenza tra giustizia e vendetta. Ora, zuccherate i caffè e allacciate i mantelli…
Nerds, assemble!
The Amazing Spider-Man
Nel 2012 Marc Webb dirige The Amazing Spider-Man, reboot meno fortunato della trilogia diretta da Sam Raimi e conclusasi solo cinque anni prima. Nonostante la forte somiglianza della struttura narrativa, questo nuovo film presenta alcune differenze. Il villain è Curt Connors aka Lizard interpretato da Rhys Ifans, ex collega del padre di Peter, contro l’impareggiabile Green Goblin di Willem Defoe. L’interesse amoroso non è più la Mary Jane di Kirsten Dunst ma la brillante Gwen Stacy di Emma Stone. Infine, il Peter Parker interpretato da Andrew Garfield è meno nerd, meno insicuro e sfortunato, rispetto a quello interpretato precedentemente da Tobey Maguire.
Forse la cosa più importante che Marc Webb ha inserito in questo reboot è la scena iniziale durante la quale vediamo per la prima volta i genitori di Peter Parker. Scopriamo che il padre era uno scienziato che stava lavorando ad una formula segreta piuttosto importante, legata, probabilmente, proprio ai ragni. Dopo aver trovato il suo ufficio in casa a soqquadro lui e la moglie lasciano un Peter bambino a casa degli zii Ben e May per poi sparire in una notte buia e tempestosa.
Una valigetta, il collegamento con il padre scomparso
Il ricordo del padre continua a muoversi come un fantasma intorno al figlio ormai adolescente, e quando Peter trova in cantina una valigetta appartenuta al padre improvvisamente anche le ricerche dell’uomo si abbattono sul giovane. Quell’oggetto è l’unico collegamento che Peter ha con il padre, assume fin da subito un valore incredibile e allo stesso tempo è fonte di ulteriori dubbi che necessitano una risposta. Peter inizia ad indagare sulla misteriosa scomparsa dei genitori e le ricerche lo conducono alla Oscorp, dove il padre lavorava ad uno studio genetico sull’incrocio tra specie insieme a Curt Connors. Lì viene morso dal famoso ragno radioattivo e ha inizio la genesi di Spider-Man.
L’assenza dei genitori ricade sui figli
Ma per quale motivo molti dei nostri eroi preferiti sono orfani? Dai classici Disney ai cinecomics, dalle saghe letterarie a quelle cinematografiche, il mondo della fantasia è pieno di protagonisti cresciuti senza i genitori. Non si tratta di un semplice espediente narrativo diventato ormai cliché, bensì di un evento che scatena inevitabilmente un certo tipo di reazione nel protagonista, risposta che può essere diversa a seconda di come è stato sviluppato caratterialmente il personaggio.
Il primo motivo per far morire i genitori del protagonista di una storia è che così facendo si va ad eliminare la principale fonte di sicurezza di un bambino. I genitori sono i nostri primi eroi, le persone alle quali tutti noi durante la nostra infanzia guardiamo come esempi. Il personaggio orfano crescerà quindi con una sensazione di instabilità, con un bisogno di trovare qualcuno o qualcosa che possa farlo sentire al sicuro, e allo stesso tempo sentirà probabilmente la necessità di agire per non far sentire gli altri in pericolo.
La morte come causa scatenante del viaggio dell’eroe
Il secondo motivo è un finto segreto delle tecniche narrative che ogni scrittore conosce fin troppo bene. Dato un eroe dovrai fare qualsiasi cosa per farlo soffrire. Può sembrare una regola sadica (in effetti tutti gli scrittori lo sono un pochino), ma ad analizzarla è facile capire il suo senso narrativo. Da una parte far soffrire un personaggio aumenta le possibilità che i lettori o gli spettatori provino empatia per lui. Pensiamoci bene, proveremmo mai simpatia per un eroe che nella vita ha letteralmente qualsiasi cosa? Non durerebbe molto. Tutti, perfino Tony Stark e Bruce Wayne, hanno uno scheletro nell’armadio legato alla figura genitoriale. E questo anche perché una seconda e fondamentale regola delle tecniche narrative è che ogni evento deve avere una ripercussione coerente con esso.
Ogni cosa che accade nella vita di un personaggio deve segnarlo e cambiarlo, è solo in questo modo che avviene il cosiddetto viaggio dell’eroe. La morte di un affetto ha un fallout potentissimo a livello narrativo, che più in tenera età accade e più risulta ripercuotersi sull’indole dell’eroe. Questa è l’altra faccia della decisione di far soffrire il protagonista. In una storia ben scritta il carattere dell’eroe viene costruito in base a ciò che gli accade nella vita e continua a mutare a seconda delle varie reazioni che ha ad ogni evento. Spider-Man è il perfetto esempio dell’applicazione di queste regole. La morte continua a seguirlo e a trasformarlo, a farlo crescere, a fargli sentire sempre più forte l’influenza che i suoi affetti perduti hanno sul suo senso di responsabilità. Un Peter Parker con i genitori e lo zio Ben non sarebbe mai diventato Spider-Man.
Continua a seguire la rubrica CoffeeNSupes per ripercorrere insieme tutti i film sui supereroi. Ti aspetto giovedì prossimo con un nuovo appuntamento!
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Rubrica a cura di Eleonora Chionni