DARIO FO: OGNI RISATA TI SI BRUCIA ADDOSSO

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Di Redazione Metropolitan

Sberleffi, sproloqui, sghignazzi.

Il teatro di Dario Fo risucchia i nostri spiriti, li scaraventa nel gioco arzigogolato, nell’equilibrismo di una farsa tanto funambolica quanto eloquente.

La parola diventa spudorata, l’attenzione rutilante, la mente saltimbanco.

Affondando le mani nella Commedia dell’arte, abbandonandosi all’improvvisazione, arrischiandosi nel canovaccio, esso la dirotta ad esasperazione strabordante, modulandola, deformandola.

https://www.ilfont.it/libri/mistero-buffo-la-vita-dario-fo-74210/ (PHOTO CREDITS: ANSA.IT)

Ciò che muta è il fine; lo si capisce già a partire dai primi anni Cinquanta quando il “magnifico giullare” sembra aprire una frattura con la rivista tradizionale proiettandosi verso la satira sociale, la critica politica.

Egli però non è solo: è una Condivisione il veicolo d’espressione bizzarra, il mezzo privilegiato per la totale manifestazione, per lo slancio provocatorio e tragico del suo teatro.

Dario incontra Franca Rame: il teatro entra nella vita, la vita si addentra nel teatro.

1954, la sposa: Il rombo del paradosso, il groviglio dell’impasse diventa comunicazione diretta; si origina da un atto di ribellione e scaturisce nel rovesciamento dei criteri di censura. Non è che l’inizio di un repentino processo di fusione.

Insieme già in alcuni spettacoli satirici come “Il dito nell’occhio” (1953), “Sani da legare” (1954), che già si trovavano costretti ad invocare una pantomima o una fibrillante gestualità che smorzasse la dura critica della Destra, abbandonano per qualche anno la scena teatrale per riaffacciarvici all’inizio degli anni Sessanta.

Nel crogiuolo impetuoso di arte e politica, il parto sofferto e rilucente di opere come “Chi ruba un piede è fortunato in amore” (1961), “Isabella, tre caravelle e un cacciaballe” (1963), “La colpa è sempre del diavolo” (1965); solo pochi tra gli innumerevoli esempi di una resa scenica graffiante che trascina l’elemento grottesco facendolo poi rimbalzare fino al limite del caricaturale.

http://www.ufficiostampa.rai.it/dl/UfficioStampa/Articoli/DARIO-FO-E-FRANCA-RAME-LA-NOSTRA-STORIA—dc1d3991-1331-43b7-bb35-e7f35f251df3.html (PHOTO CREDITS: ANSA.IT)

Frutto dell’osmotica collaborazione tra i due coniugi, ormai indivisibili, anche

“La signora è da buttare” (1967) dove, trascinati dalla sceneggiatura cangiante, assistiamo strabiliati all’accostamento inedito tra gioco e dramma, ci muoviamo insieme agli attori arrivando ad assimilarne le movenze, predisponendo l’occhio alla ruvida percezione del ridicolo.

Esso non è mai fine a se stesso, appare invece come un geniale stratagemma, elemento in grado di risvegliare le coscienze dal torpore.

I tubi sono serpenti, le scarpe in sosta vietata, in quell’America irrisa e fittizia.

Le ballerine parlano con uomini nudi e invisibili e ne lodano i capelli fluenti.

E’ così che l’occhio si spalanca; strabiliato dall’assenza di filtri, è assorbito, trascinato, dirottato dal repentino trasformismo di ruoli, dal paradosso, dall’esasperazione.

Dinanzi a noi una parafrasi.

Si cela dietro la farsa o la deformante comicità, rumoreggia come una risata, ma emana l’aspro odore di una polemica diretta, senza filtri.

Dunque, la libertà d’espressione, la provocazione, la polifonia irruenta, la denuncia.

 Sotto la nostra lente proprio gli incandescenti anni seguenti che lo condurranno a prendere le distanze dal velluto rosso dei palcoscenici per riversarsi nelle strade.

Del 1968 è la nascita dell’associazione “Nuova scena”, gruppo teatrale ideato sulla spinta di una radicale denuncia volta a ritornare alle origini popolari del teatro, realizzata affinché “seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2016/10/13/dario-fo-e-franca-rame-una-delle-storie-damore-piu-belle-del-novecento-irripetibile-moderna-fino-allultimo-assoluta/3095370/ (PHOTO CREDITS: ANSA.IT)

Di certo uno straccionismo lirico, un’espressione funambolica, ma anche e soprattutto l’effetto di un identificazione, quella di Fo, che consegna il proprio autoritratto al paradosso, che si immedesima con il clown, col saltimbanco rivendicandone la componente ironica come quella tragicomica.

Qual è dunque il retrogusto di una risata? Su quali echi metallici essa si trova a rimbombare?

La risposta è forse nascosta dietro una geniale giullarata, quel “Mistero buffo” che, messo in scena nel 1969, vede la sapiente fusione di grammelot”, onomatopea, parola grottesca e nell’esplosione straripante delle sue componenti, sembra gridare agli spettatori: “Vi riempirete gli occhi di parole!”.

Giorgia Leuratti