Darren Aronofsky | Regista del delirio

Foto dell'autore

Di Chiara Cozzi

In occasione dei 51 anni del regista, ripercorriamone la carriera addentrandoci nei meandri più oscuri della mente di Darren Aronofsky.

π – Il teorema del delirio (π, 1998)

Un'immagine tratta da "π - Il teorema del delirio" - immagine web
Un’immagine tratta da “π – Il teorema del delirio” – immagine web

Il primo film di Darren Aronofsky racconta la storia di Max, un matematico che vive in quasi totale isolamento. Convinto che i numeri influenzino ogni aspetto della vita e del mondo, ha un unico scopo: quello di creare uno schema che gli permetta di predire le quotazioni in borsa. Da questo momento le sue ricerche si fonderanno con i principi della Torah ebraica, pervadendo di misticismo tutto ciò che Max aveva sempre creduto razionale.

Il film, girato con camere a mano e in bianco e nero, ricorda i lavori avanguardisti della nouvelle vague. L’alienante colonna sonora e la forte spinta sulla grana della pellicola hanno garantito che Darren Aronofsky si aggiudicasse il Premio alla miglior regia al Sundance del 1998.

Requiem for a dream (2000)

Jennifer Connelly in una scena del film - immagine web
Jennifer Connelly in una scena del film – immagine web

Il delirio stavolta si insinua nel mondo della tossicodipendenza: Harry, Marion, Tyrone e Sara sono dipendenti da eroina e anfetamine. Il loro abuso li condurrà, dopo un iniziale periodo di successi, ad un lento ed inesorabile declino da cui sarà impossibile uscire.
Il film si divide infatti in tre parti, corrispondenti alle stagioni: Summer, Fall (che in inglese può essere tradotto come “autunno” ma anche come “caduta”) e Winter. Non esiste la stagione dedicata alla primavera, che fa rinascere tutto ciò che è morto in inverno, poiché Requiem for a dream non ammette che il destino dei personaggi cambi.

Come per il film precedente, Darren Aronofsky si avvale di sequenze ultra frammentate e perciò frenetiche; per enfatizzare questo aspetto fa ampio uso del time lapse, dello split screen e del grandangolo su primi e primissimi piani.

The Fountain – L’albero della vita (The Fountain, 2006)

Una scena del film - immagine web
Una scena del film – immagine web

Pregno di effetti speciali, questo film intreccia il realismo alla fantasia, svolgendosi infatti su tre piani narrativi diversi. Tomas (Hugh Jackman) è un brillante oncologo che unisce l’impegno professionale a quello privato: sua moglie Isabel (Rachel Weisz) è a sua volta malata, e l’uomo è alla disperata ricerca di una cura.
Realtà e fantasia si mescolano quando il racconto epico scritto da Isabel si scontra con la realtà e con l’ego di Tomas: diventando uno e trino come Dio, l’uomo è mosso da tre obiettivi diversi che lo condurranno sempre a confrontarsi con se stesso presso l’Albero della Vita.

The Wrestler (2008)

Mickey Rourke in una scena del film - immagine web
Mickey Rourke in una scena del film – immagine web

Vincitore di un Leone d’Oro, due Golden Globe e candidato a due premi Oscar, The Wrestler mette in scena, ancora una volta nella filmografia di Aronofsky, l’ascesa e la sconfitta di un uomo; non uno qualsiasi, in questo caso, ma il wrestler The Ram (Mickey Rourke), celebre negli anni Ottanta.
Caduto in miseria, ammalato e senza più alcun affetto che lo motivi ad andare avanti, The Ram proverà a rimettere insieme i pezzi della sua vita, finendo però col capire che l’unico posto in cui è al sicuro è il ring.

Il cigno nero (Black Swan, 2010)

Natalie Portman in una scena del film di Darren Aronofsky - immagine web
Natalie Portman in una scena del film – immagine web

Quasi come un continuum della pellicola precedente, Il cigno nero porta nuovamente una disciplina sportiva al centro dello schermo. Trattasi in questo caso della danza classica, sport in cui notoriamente vige la perfezione e che porterà la protagonista Nina (Natalie Portman) ad impazzire per ottenere una performance perfetta come prima ballerina in Il lago dei cigni.

Darren Aronofsky analizza qui il tema della malattia mentale, in particolare del disturbo dissociativo della personalità: il personaggio di Natalie Portman è talmente ossessionato dalla propria perfezione che crea dei nemici contro cui lottare, ignorando che l’unico nemico che sta combattendo è proprio se stessa. Per questa interpretazione, l’attrice ha vinto il premio Oscar come Miglior attrice protagonista.

Noah (2014)

Russel Crowe (Noè) in una scena del film - film di Darren Aronofsky immagine web
Russel Crowe (Noè) in una scena del film – immagine web

La storia di Noè ha sempre affascinato Darren Aronofsky, che voleva mettersi a lavoro su un film che ne mettesse in scena le vicende già dopo π – Il teorema del delirio.
Dal momento in cui il passo biblico che racconta la storia è davvero breve, Aronofsky (aiutato dallo sceneggiatore Ari Handel) ha adattato la storia ai tempi cinematografici utilizzando come pretesto il racconto di un litigio tra Noè e suo figlio.
Questo episodio, e quella che il regista chiama “sindrome da sopravvissuto post-diluvio“, gli hanno permesso di portare a compimento un film il più completo possibile, che riflette anche sull’atteggiamento benevolo di Dio dopo aver punito gli uomini con il diluvio.

madre! (mother!, 2017)

Jennifer Lawrence e Javier Bardem in una scena del film di Darren Aronofsky - immagine web
Jennifer Lawrence e Javier Bardem in una scena del film – immagine web

L’espediente biblico torna in madre!, l’ultimo film di Darren Aronofsky, in cui viene rappresentato il rapporto tra gli uomini e la Madre Terra (interpretata da Jennifer Lawrence), costantemente violata nell’intimo e nel profondo.
Di fatto tutti i personaggi non hanno un nome loro attribuito, ed è perciò ancor più facile identificarli con le figure dell’Antico Testamento. Javier Bardem è un poeta, un creatore: rappresenta dunque Dio; Michelle Pfeiffer, Ed Harris e i loro figli sono Eva, Adamo e Caino e Abele. Il bambino che la donna protagonista porta in grembo è infine Gesù, che si immolerà innocentemente per l’umanità, rappresentata dai fan del poeta.

Il film ha riscosso inizialmente critiche estremamente negative, per poi spaccare a metà la critica e il giudizio del pubblico, tra chi grida al capolavoro e chi allo scempio.
L’opera risulta priva di colonna sonora, permettendo allo spettatore di empatizzare di più con una Jennifer Lawrence satura dei rumori assordanti e del caos provocati dagli inquilini accorsi in casa sua.

Chiara Cozzi

Ti è piaciuto il nostro articolo? Seguici su MMI.