David di Donatello 2024: cerimonia maccheronica

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Di Alessandro Libianchi

Il bel paese. Il paese che ha la più fervente macchina cinematografica al mondo, lo star system che oltre oceano ci invidiano. E poi Cinecittà, la Hollywood sul Tevere, come direbbe qualcuno di più colto. Peccato che gli anni passano, e l’età dell’oro del cinema italiano sia finita da circa 60 anni. Ma è così, la tendenza italiana, di crogiolarsi nei tempi che furono con sguardo sognante e un po’ malinconico. E allora via di omaggio pallido e tiepido a Fellini – ovviamente – e a Sandra Milo con uno spettacolo d’apertura tenuto in piedi solo dalle spettacolari coreografie di Tommasini. E poi la politica, quella culturale, che con sorrisi falsi millanta dati di incassi record per i cinema a luglio ed agosto senza però – deliberatamente – ricordare che proprio in quei mesi eravamo tutti in sala a vedere Barbie e Oppenheimer. Inizia nel migliore dei modi la cerimonia dei David di Donatello 2024.

Poi ovviamente la premiazione. O per meglio dire, le due premiazioni. Perché, a quanto pare, per i David di Donatello 2024 esistono categorie di serie A e di serie B. La scelta scellerata di consegnare i premi tecnici e di decor nei sottoscala o in altri teatri di cinecittà non è andata giù a più di qualcuno, soprattutto tra i costumisti. E con enorme ragione. A poco serve la scusa di Carlo Conti che, insieme ad Alessia Marcuzzi rendono la cerimonia più importante del cinema italiano così patinatamente Rai. Vincitrice ai numeri, con 6 premi, Paola Cortellesi con il suo C’è ancora domani, ma oggi c’è ancora Io Capitano di Matteo Garrone, che si porta a casa 5 statuette pesantissime tra cui quella di miglior film, confermando la tendenza straripante del film approvato in più occasioni – come la scelta di portarlo agli Oscar per rappresentare il cinema italiano – da parte della nostra industria.

David di Donatello 2024: premi

David di Donatello 2024: Paola Cortellesi e Alessia Marcuzzi sul palco
David di Donatello 2024: Paola Cortellesi e Alessia Marcuzzi sul palco

Parlare dei premi in sé è abbastanza semplice. Non ci sono state grandi sorprese o sconvolgimenti. Non c’è stata neanche l’en plein di C’è ancora domani che si auspicava alla vigilia. Ma è naturale che non sarebbe stato così, visto la politicizzazione dei David. Il film rivelazione di Cortellesi si aggiudica i premi alla persona, più che al film. Miglior attrice non protagonista per Fanelli, attrice protagonista per la stessa Cortellesi, sceneggiatura originale e film d’esordio. Quest’ultima categoria merita una nota a parte. Come è stato detto ampiamente il giorno dell’annuncio delle candidature, è impensabile che il più giovane regista esordiente nella cinquina abbia 41 anni. E, oltretutto, tre dei candidati sono attori che per la prima volta si spostano dietro la macchina da presa, e quindi esordi solamente De Facto. Quest’anno in particolare abbiamo avuto esordi stratosferici che meritavano riconoscimento. Dal meraviglioso Non Credo in niente di Alessandro Marzullo, dall’altrettanto sorprendente Patagonia di Simone Bozzelli. O ancora Una sterminata domenica di Alain Parroni o il racconto di una Roma pulp di Trash Secco in Bassifondi. Questi sono solo alcuni titoli che avrebbero decisamente far parte di una categoria di registi esordienti che si rispetti. Sintomo di un cinema talmente tanto vivo nelle sue sfaccettature da far paura. Perché la voglia di raccontare è tantissima, serve solo il modo – e la voglia – di riconoscerla.

Io Capitano, come detto, si aggiudica i premi più importanti. Vince miglior film, miglior regia a Garrone, miglior fotografia, miglior montaggio e miglior produttore. Quest’ultimo premio appannaggio costante di Rai Cinema che sembra sempre un po’ premiare sé stessa, mettendosi in autonomia una medaglietta e stringendosi le mani. Oltretutto, Seydou Sarr e Moustapha Fall non erano candidati per i premi attoriali dato che non recitavano in italiano. Altrimenti, chissà come sarebbe andata… La parte più inspiegabile della vittorie, resta e resterà a lungo la bocca asciutta con cui torna a casa Alice Rohrwacher per il suo meraviglioso La Chimera, che non riceve neanche un riconoscimento. Ed è allucinante, considerando l’impatto enorme e la considerazione che la regista ha all’estero e la poco riconoscenza che abbiamo di lei qui. Deve essere proprio un’altra donna, questa volta tedesca, a ricordarci quanto di bello abbiamo nel nostro paese e facciamo finta di non vedere. Justine Triet commuove e ricorda a tutti che Regista con la R maiuscola è Alice Rohrwacher e ci dimostra quanto è amata fuori dal paese. Un peccato mortale che costrinse la stessa regista e Josh O’Connor in tempi non sospetti a pregare via social per una distribuzione degna di questo nome di un film che ha girato la metà dei festival mondiali. Tutto vergognoso.

La vecchia guardia

Paradossalmente, nonostante una cerimonia fatta di baci e abbracci nostalgici con la polvere nascosta sotto il tappeto, chi ha preso in mano la situazione sono stati i rappresentanti della vecchia guardia cinematografica. Figure di spicco come Milena Vukotic che con classe e garbo era li a ritirare il David alla carriera, la sua enorme, che viene spazzata via da un banalissimo “Pinaaa!” di un inadatto Carlo Conti. Così come il momento di Giorgio Moroder che ironicamente confronta questo David alla carriera con la vittoria di un Oscar, anche se di Oscar ne ha vinti 3 e di David solo uno, oltretutto in colpevole ritardo. O anche il giovanissimo nello spirito Marco Bellocchio che, nonostante le vittorie un po’ dubbie del suo film – se è un film in costume, i premi del decor deve vincerli. Ma dove sta scritto? – ci ricorda come la voglia di cinema non sparisca mai e si fa più giovane e attivo di tante vetuste facce presenti in platea. Orgogliosa e quasi unica rappresentazione di una Nouvelle Vague italiana che non ha mai preso piede perché, da noi, il “cinéma de papa” non venne respinto, ma visto con dolce nostalgia. Esatto, proprio come oggi.

Nota a parte va fatta ad un gigante che, chiunque lavora o voglia lavorare nel giornalismo cinematografico dovrebbe prendere come esempio: Vincenzo Mollica. Nei suoi minuti di premiazione al David speciale, nonostante la malattia, presa con un’ironia meravigliosa, regala degli aneddoti incredibili di una carriera che non si può raccontare. Da Alberto Sordi fino Fellini o a tutta Hollywood, Mollica fa quello che tutti in quella sala cercano di fare ogni giorno usando solo lo strumento della parola: fa cinema. In conclusione, i David, come ogni anno – una brutta abitudine – diventano specchio di un sistema cinema italiano al declino per le continue scelte fuori luogo. Quest’anno, in particolare, non è stata solamente una premiazione figlia dell’imbarazzo e dell’inadeguatezza, ma anche di scelte scellerate in sede di preparazione, di messa in campo e di conduzione. E la dicotomia tra Io capitano e C’è ancora domani, alla fine, è stata la cosa minore. In fondo, non era biasimabile la vittoria di nessuno dei due film. Uno segno di un cinema grande, internazionale che compete con il mondo. L’altro a metà tra l’autorialità e il popolare, segno degli incassi e intercettatore del gusto del pubblico. Certo è che, per una volta, si sarebbe potuto dare ascolto alla voce fondamentale dell’industria, quella della sala. E C’è ancora domani è stato il diapason del gusto popolare, mai veramente considerato ai David.

Alessandro Libianchi

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