I romanzi di Dostoevskij sono in massima parte sotterranei: rappresentano una mappa per il sottosuolo dell’anima umana. Il bene vi traspare soltanto in brevi sprazzi di luce, come attraverso una finestra opaca. L’autore affianca alla descrizione puntigliosa del male psicologico e morale della società una visione d’amore cristiano universale, che non appartiene al mondo terreno.
Dostoevskij, l’uomo nichilista e il sottosuolo dell’anima
Dostoevskij, in Memorie dal sottosuolo, condanna l’utopia della società a formicaio proposta dai positivisti, che trattavano l’uomo come un’entità prevedibile, finita, sempre esatta come un’equazione senza incognite. I positivisti pretendevano di conoscere le autentiche esigenze umane (i bisogni biologici e materiali). Si erano convinti di poter garantire la pace sociale e la felicità collettiva costruendo una società che si occupasse solo di quelle esigenze. E come risultato hanno ottenuto una società nichilista. Dostoevskij li smentisce e mette in ridicolo, affermando che il singolo individuo umano è sempre guidato da un segreto desiderio di sofferenza e annullamento, un cupio dissolvi del tutto irrazionale, ma che corrisponde alla sua vera volontà, quando la vita è privata di un senso ulteriore.
L’uomo nichilista non vive secondo ragione. La scienza non fa presa sulla sua profondità: lì alberga la sete d’infinito che non si può saziare in questa vita. Egli può sopravvivere alla follia soltanto ritirandosi nel sottosuolo dell’anima, nello scetticismo accidioso che si arrende di fronte all’insensatezza della vita terrena.
Il sottosuolo è la legge della sopravvivenza animale, la legge dell’homo homini lupus. Sotto questa legge, l’uomo vede il prossimo come un rivale, un competitore da battere, un nemico da distruggere o da cui scappare. È insomma il regno dove domina la legge della necessità cui è sottoposto il mondo naturale.
L’alternativa: l’amore di Cristo
L’alternativa alla discesa nel sottosuolo dell’anima è una sola: l’amore, incarnato dalla figura mite e maestosa di Cristo. Dostoevskij espone il suo credo cristiano in una famosa lettera del 1854 a Natalija Dmitrievna Fonvizina, da cui aveva ricevuto una copia del Vangelo: “Questo Credo è molto semplice, e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità.”
Ma Dostoevskij si rende conto che l’amore, per come lo intende lui e lo intendeva Cristo prima di lui (ama il prossimo tuo come te stesso), è un miracolo impossibile sulla terra. L’io è d’impaccio. “Ti devo fare una confessione” ammette Ivan al fratello Aleksej nei Fratelli Karamazov: “Non sono mai riuscito a capire come si possa amare il prossimo. Sono proprio le persone vicine che è impossibile amare; se mai è più facile amare quelle lontane. Ammettiamo, per esempio, che io sia capace di soffrire profondamente: un altro uomo non potrà mai sapere fino a che punto io soffra, appunto perché è un altro, non è me stesso; inoltre è raro che una persona acconsenta a riconoscere le sofferenze altrui. Perché non le vuole riconoscere? Perché, per esempio, io mando un cattivo odore, oppure perché ho un viso stupido, perché una volta gli ho pestato un piede…”
L’uomo non sopporta il suo prossimo per ragioni futili: difetti fisici, mancanze, antipatie e torti del passato. Cristo, invece, riesce ad amare gli uomini proprio nelle loro debolezze e nel loro errare testardo. Ne Il Grande Inquisitore, poema scritto da Ivan Karamazov, Dostoevskij dà saggio di questo amore. Rinchiuso in una prigione di Siviglia da un vecchissimo cardinale inquisitore, il Cristo, ritornato fra i mortali, viene visitato di notte. È il grande inquisitore, che gli chiede perché è venuto a disturbare i potenti della terra e lo accusa di aver preferito concedere agli uomini la libertà piuttosto che la felicità, il pane celeste piuttosto che quello terreno. Gli illustra poi il piano della chiesa, ormai corrotta, di soggiogare il gregge dell’umanità: Noi abbiamo corretto la tua opera. L’abbiamo basata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. Abbiamo seguito lui, e non te. Sta parlando del diavolo, ovviamente.
L’inquisitore promette poi al prigioniero che l’indomani lo manderà al rogo. Cristo lo ha ascoltato in silenzio. Il vecchio vorrebbe che gli dicesse qualche cosa. Ma ecco Lui si avvicina e lo bacia dolcemente sulle labbra esangui. E questa è tutta la sua risposta. Una risposta di amore incondizionato per il suo carnefice.
Lorenzo La Rovere
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