Il giorno del giudizio è dunque arrivato. L’Election Day 2024 decreterà la fine di una delle campagne elettorali più intense e imprevedibili degli ultimi decenni. La pioggia di scandali a sfondo sessuale che continua a cadere su Donald Trump, l’abbandono di Joe Biden e l’entrata in scena, solo pochi mesi fa, di Kamala Harris. E poi i dibattiti infuocati, i botta e risposta al veleno, le reciproche accuse e i programmi diametralmente opposti. Ogni cosa ha condotto, infine, ad oggi, 5 novembre. Les jeux sont faits, o quasi, e nei prossimi giorni scopriremo chi occuperà lo Studio Ovale per i prossimi quattro anni. La lotta tra il tycoon repubblicano e la Vicepresidente democratica si preannuncia serrata, e il campo di battaglia è individuabile negli Stati in bilico -ben sette, a quanto pare- che decideranno le sorti degli Stati Uniti e, di conseguenza, del resto del pianeta.
La scelta degli americani influirà, senza alcun dubbio, sulla politica internazionale, sulle strategie per la salvaguardia dell’ambiente e sui grandi temi sociali e civili. In una manciata di ore gli equilibri del mondo si sposteranno nuovamente, in un senso o nell’altro, come accade dopo ogni votazione di tale portata. C’è chi spera in un ritorno alla Casa Bianca dell’ex Presidente, eletto nel 2016 e poi battuto da Biden nel 2020 e chi, invece, auspica l’avvento della progressista Harris. In qualsiasi modo questa lunga notte si concluderà, il 20 gennaio 2025 il nuovo POTUS giurerà, dando ufficialmente inizio al nuovo mandato.
In attesa di quel giorno, tuttavia, i due candidati si preparano all’eventualità di tenere il famoso discorso della vittoria che spetterà ad uno di loro. Nel corso degli anni, ci sono state varie orazioni degne di nota. Una su tutte, però, è destinata a restare per sempre negli annali: il primo victory speech di Barack Obama, eletto nel 2008.
Election Day: la vittoria di Barack Obama nel 2008
L’Election Day che decretò la vittoria del senatore democratico fu, di per sé, un evento storico senza precedenti. Per la prima volta, infatti, a sedere sulla poltrona presidenziale più rilevante dell’Occidente, sarebbe stato un uomo di origini afroamericane. Barack Hussein Obama, nato a Honolulu nel 1961, da madre statunitense e padre kenyota, s’impose sul suo oppositore, il veterano di guerra John McCain, il 4 novembre 2008, diventando così il quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti d’America. A fare la differenza, ancora una volta, furono i cosiddetti Swing States.
Una volta confermato il risultato e, come da tradizione, dopo aver lasciato la parola all’avversario, Obama tenne il primo discorso da neo-eletto nella sua Chicago. Davanti a lui, una folla di duecentoquarantamila persone, oltre ai milioni di telespettatori in ogni parte del globo. Fulcro della declamazione, le principali questioni che gli Stati Uniti si trovavano allora ad affrontare, tenendo fede agli slogan di cambiamento della sua campagna elettorale.
Lo storico victory speech
«Ciao, Chicago!
Se là fuori c’è ancora qualcuno che dubita che l’America sia un luogo dove tutto è possibile, che
ancora si chiede se il sogno dei nostri Fondatori sia vivo nella nostra epoca, che ancora mette in
dubbio la forza della nostra democrazia, questa notte è la vostra risposta.»
Queste furono le parole con cui Barack Obama si presentò al mondo, protagonista di una svolta epocale nel corso della storia americana. Un ringraziamento al suo elettorato, compatto e desideroso di modificare un percorso che sembrava già scritto, e che aveva individuato in lui l’uomo giusto, al momento giusto:
«È la risposta data dalle file di elettori che si estendevano intorno alle scuole e alle chiese, file mai
viste prima da questa nazione, è la risposta che hanno dato le persone che hanno aspettato tre,
quattro ore, molti per la prima volta in vita loro, perché erano convinti che questa volta doveva
essere diverso, che la loro voce poteva fare la differenza.
È la risposta pronunciata da giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, neri,
bianchi, ispanici, asiatici, nativi americani, gay, etero, disabili e non disabili: americani che hanno
inviato al mondo il messaggio che noi non siamo mai stati semplicemente un insieme di individui o
un insieme di Stati rossi e Stati blu: noi siamo e saremo sempre gli
Stati Uniti d’America.
È la risposta che ha spinto quelli che per tanto tempo, da tanta gente, si sono sentiti dire che
dovevano essere cinici, spaventati, scettici su quello che possiamo fare, sulla possibilità di mettere
le mani sul corso della storia e piegarlo in direzione della speranza di un giorno migliore. Ci ha
messo molto ad arrivare, ma questa notte, grazie a quello che abbiamo fatto in questa giornata, in
queste elezioni, in questo momento storico, il cambiamento è arrivato in America.»
Una nazione disincantata, ferita nell’animo e al cuore dagli attentati dell’11 settembre 2001, ancora troppo vicini per essere elaborati, scossi dalla crisi economica globale e dai problemi di una società ingiusta, che non tutelava le minoranze. Una nazione che aveva deciso, con un colpo di teatro, di lasciare la strada certa e d’imboccarne una più tortuosa, ma forse più giusta, mettendosi nelle mani di un uomo di quarantasette anni dalle grandi idee.
Election Day: il discorso di Obama, il tributo alla famiglia e agli elettori
il discorso proseguì con un plauso a John McCain e al suo fair play. Il militare repubblicano non aveva mosso obiezioni, né aveva contestato i risultati, ma si era limitato a congratularsi con Obama, nel rispetto della decisione degli elettori. Un atteggiamento corretto decisamente diverso da quello di Trump durante il passato Election Day, le cui recriminazioni hanno portato, nel gennaio 2021, al tristemente famoso assalto a Capitol Hill. Un ringraziamento anche ai collaboratori, dal Vicepresidente Joe Biden al suo entourage, per poi passare all’amata Michelle e alla famiglia:
«E non sarei qui stanotte senza l’incrollabile supporto di quella che è stata la mia migliore amica
negli ultimi 16 anni, la roccia della nostra famiglia, l’amore della mia vita, la prossima first lady
della nazione, Michelle Obama.
Sasha e Malia, vi amo tutte e due, più di quanto possiate immaginare, e vi siete guadagnate il nuovo
cucciolo che verrà con noi alla Casa Bianca.
E anche se non è più con noi, so che mia nonna sta guardando, e con lei la mia famiglia, che mi ha
reso quello che sono. Sento la loro mancanza stanotte, e so che il debito verso di loro è
incommensurabile.
A mia sorella Maya, a mia sorella Auma, a tutti i miei fratelli e sorelle, grazie mille per il sostegno
che mi avete dato. Vi sono grato.»
Il grazie più sentito, però, fu tutto per i sostenitori di quell’impresa politica dal sapore di miracolo:
«Ma soprattutto non dimenticherò mai a chi appartiene veramente questa vittoria. Appartiene a voi.
Appartiene a voi.»
Obama era consapevole di essere partito come sfavorito nella lotta per le presidenziali, eppure aveva superato le primarie all’interno del suo stesso partito, vincendo le ritrosie di molti e, grazie a un lavoro di squadra, al suo programma innovativo e alle sue capacità comunicative, era riuscito a scalfire il muro di pregiudizi che gli si erano parati davanti.
Il programma politico del neo-presidente
Gli Stati Uniti che si paravano davanti ad Obama non godevano di ottima salute, e il politico lo sapeva bene: la guerra in Afghanistan, la salute pubblica, un sistema giudiziario da rivedere, il secondo emendamento e il conseguente utilizzo delle armi, l’ambiente, le energie rinnovabili. Su tutto, la crisi finanziaria che stava mettendo in ginocchio anche le maggiori potenze:
«Ricordiamoci che se questa crisi finanziaria ci ha insegnato qualcosa, questo qualcosa è che Wall
Street, la grande finanza, non può prosperare se Main Street, l’uomo della strada, patisce. In questo
paese, ci alziamo o cadiamo come un’unica nazione: come un unico popolo.»
Per lui, tuttavia, il percorso presentava degli ostacoli, ma questi non erano insormontabili:
«La strada che ci aspetta sarà lunga. La pendenza sarà ripida. Forse non ci arriveremo in un anno e
nemmeno nell’arco di un mandato, ma, America, io non sono mai stato tanto fiducioso come questa
notte che ci arriveremo. Ve lo prometto: noi, come popolo, ci arriveremo.
Ci saranno ostacoli e false partenze. Molti non concorderanno con tutte le decisioni che prenderò
come presidente, e sappiamo che il governo non può risolvere ogni problema. Ma io sarò sempre
sincero con voi sulle sfide che dovremo affrontare. Vi starò a sentire, specialmente quando non
saremo d’accordo. E soprattutto vi chiederò di prendere parte all’opera di ricostruzione di questa
nazione nell’unico modo che l’America abbia mai conosciuto nei suoi 221 anni di storia: una casa
sull’altra, un mattone sull’altro, una mano incallita dalla fatica sull’altra.»
Tirando poi in ballo uno dei suoi predecessori più amati, Abraham Lincoln, Obama infuse coraggio alla popolazione, risvegliando in essa l’orgoglio americano:
«Come disse Lincoln a una nazione molto più divisa della nostra: «Noi non siamo nemici, ma amici:
la passione può aver messo a dura prova i nostri legami, ma non deve spezzarli». E a quegli
americani di cui ancora devo conquistarmi il sostegno dico: stanotte non ho conquistato il vostro
voto, ma ascolto la vostra voce, ho bisogno del vostro aiuto e sarò anche il vostro presidente.
E a tutti coloro che stanotte ci stanno guardando da altri paesi, da regge e parlamenti fino a coloro
che stanno stretti intorno a una radio negli angoli più dimenticati del pianeta, dico: le nostre storie
sono individuali, ma il nostro destino è comune e una nuova alba di leadership americana è a portata
di mano. A coloro che vorrebbero distruggere il mondo dico: noi vi sconfiggeremo. A coloro che
cercano pace e sicurezza dico: noi vi sosterremo. E a tutti coloro che si sono chiesti se il faro
dell’America splende ancora come un tempo dico: questa notte vi abbiamo dimostrato una volta di
più che la vera forza della nostra nazione non nasce dalla potenza delle nostre armi o dalla portata
della nostra ricchezza, ma dalla forza costante dei nostri ideali: democrazia, libertà, opportunità e
invincibile speranza.Questo è il vero talento dell’America, il fatto che l’America può cambiare. La nostra unione può
essere perfezionata. E quello che abbiamo già ottenuto ci dà speranza per quello che possiamo e
dobbiamo ottenere domani.»
Election Day: la storia di Ann Nixon Cooper
A quel punto, Obama parlò di una sua elettrice molto speciale, Ann Nixon Cooper, corsa a partecipare all’Election Day alla veneranda età di centosei anni, desiderosa di vedere, finalmente, quel cambiamento atteso per una vita intera:
«In queste elezioni ci sono state molte novità assolute e molte storie che verranno raccontate per
generazioni e generazioni. Ma una storia che ho in mente stanotte è quella di una donna che è
andata a votare ad Atlanta. Assomiglia in tutto e per tutto ai milioni di altri individui che si sono
messi in fila per far sentire la loro voce in queste elezioni, tranne che per un aspetto: Ann Nixon
Cooper ha 106 anni.
Ann Nixon Cooper è nata appena una generazione dopo la fine della schiavitù: un’epoca in cui non
c’erano macchine per le strade o aerei nei cieli; un’epoca in cui una come lei non poteva votare per
due ragioni, perché era una donna e per il colore della sua pelle. E questa notte penso a tutto quello
che ha visto nel corso del secolo che ha vissuto in America: l’angoscia e la speranza, la lotta e il
progresso, i tempi in cui ci dicevano che non potevamo farcela e le persone che hanno tirato avanti
fondandosi su quella professione di fede americana: sì, possiamo farcela.
In un’epoca in cui la voce delle donne veniva messa a tacere e le loro speranze venivano ignorate,
Ann Nixon Cooper è vissuta per vedere le donne battersi per i propri diritti, far sentire la propria
voce e ottenere il voto. Sì, possiamo farcela.
Quando c’era disperazione nella regione delle Grandi Pianure e tutto il paese era attraversato dalla
depressione, abbiamo visto una nazione sconfiggere la paura stessa con un New Deal, un nuovo
patto, con nuovi posti di lavoro e un nuovo sentimento di uno scopo comune. Sì, possiamo farcela.
Quando le bombe sono cadute nella nostra baia e la tirannia ha minacciato il mondo, Ann Nixon
Cooper era lì a testimoniare come una generazione riuscì ad assurgere alla grandezza e a salvare la
democrazia. Sì, possiamo farcela.
Ann Nixon Cooper era lì per gli autobus a Montgomery, per gli idranti a Birgmingham, per il ponte
di Selma e per un predicatore di Atlanta che diceva alla gente “Ce la faremo”, noi vinceremo.
Sì, possiamo farcela.»
Da Barack Obama all’Election Day 2024
«Un uomo è atterrato sulla Luna, un muro è crollato a Berlino, un mondo è stato collegato dalla
nostra scienza e dalla nostra immaginazione. E quest’anno, in queste elezioni, Ann Nixon
Cooper ha messo un dito su uno schermo e ha votato, perché dopo 106 anni in America, attraverso i
momenti migliori e le ore più cupe, lei sa che l’America può cambiare.
Sì, possiamo farcela.
Americani, abbiamo fatto tanta strada. Abbiamo visto tante cose. Ma c’è ancora moltissimo da fare.
Perciò questa notte domandiamoci: se i nostri figli dovessero vivere tanto da vedere il prossimo
secolo, se le mie figlie dovessero essere tanto fortunate da vivere tanto a lungo quanto Ann Nixon
Cooper, quale cambiamento vedranno? Quali progressi avremo realizzato?
Questa è la nostra occasione per rispondere a questo appello. Questo è il nostro momento. Questa è
la nostra epoca: per rimettere la nostra gente al lavoro e aprire porte di opportunità per i nostri
bambini; per riportare la prosperità e promuovere la causa della pace; per rivendicare il sogno
americano e riaffermare quella verità fondamentale, che da molti siamo uno; che finché avremo vita
avremo speranza: e quando ci troveremo di fronte al cinismo e al dubbio, e a quelli che ci dicono
che non ce la possiamo fare, noi risponderemo con quella professione di fede immortale che
riassume lo spirito di un popolo: sì, possiamo farcela.
Grazie. Dio vi benedica. E che Dio benedica gli Stati Uniti d’America.»
Una lettera d’amore al suo Paese, una celebrazione delle sue origini e delle persone che lo compongono. Non sono i governi a fare le nazioni, ma i popoli, e tali popoli sono composti da persone. Persone che lottano, che soffrono e che vanno avanti, anche quando hanno la sensazione di non poter farlo. Persone che vanno sulla Luna, persone che fanno cadere dittature, persone che non si tirano indietro di fronte ad un universo in continuo movimento.
Il discorso di Obama è un inno alla speranza, all’unione e all’impegno. Il popolo americano, all’epoca, gli diede fiducia, e la rinnovò quattro anni dopo, rieleggendolo al seguente Election Day. Quello stesso popolo, oggi, è chiamato a decidere se essere o meno fautore di un nuovo cambiamento, ancora più importante, ancora più storico. A noi non resta che aspettare, con il fiato sospeso.
Federica Checchia
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