Fabrizio De Andrè: quella sua Spoon River che sconvolse anche la Pivano

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Di Chiara Cozzi

È il 1971 quando Fabrizio De Andrè pubblica Non al denaro, non all’amore né al cielo. Per questo suo quinto album in studio decide di rileggere un’opera monumentale per la poesia internazionale, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, e di reinterpretarne alcuni brani a modo suo. Il risultato fu un disco così personale che sconvolse anche Fernanda Pivano, ai tempi traduttrice dell’edizione.

Avrò avuto diciott’anni quando ho letto Spoon River. Mi era piaciuto, forse perché in quei personaggi trovavo qualcosa di me. Nel disco si parla di vizi e virtù: è chiaro che la virtù mi interessa di meno, perché non va migliorata. Invece il vizio lo si può migliorare: solo così un discorso può essere produttivo.

Fabrizio De Andrè intervistato da Fernanda Pivano

Il cantautore genovese, nella sua personale rilettura del dramma di Masters, sceglie alcuni personaggi e ne rielabora testi ed esperienze. Celebre infatti la rivisitazione colorita che fa del linguaggio del Giudice, in quanto lo rende iperbolicamente un nano che “ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”. Espressione, questa, che fece arrabbiare la stessa Fernanda Pivano, traduttrice della prima edizione dell’opera, pubblicata nel 1943.

Fabrizio De Andrè nel suo album affronta i temi dell’invidia e della scienza, che spesso possono accidentalmente portare a conseguenze negative; tuttavia in entrambi si può comunque vedere un barlume di speranza, come nel caso del Malato di cuore che supera l’invidia della salute con l’amore e in quello del Suonatore Jones che invece supera la propria smania di ambizioni suonando solo per passione.

Mentre si ascolta il disco, ci si perde tranquillamente tra le tombe della Collina, che custodisce le anime, le storie e i ricordi di chi vi dorme.

Chiara Cozzi

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Ph: style.corriere.it