George Harrison, essere spirituale in un mondo materiale

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Di Giorgia Lanciotti

«Sono nato a Liverpool, 12 Arnold Grove, nel febbraio 1943»: così si presenta George Harrison ai lettori della “The Beatles Anthology”. Definito “the quiet beatle” dai media del tempo, i suoi amici dicono ancora che di lui colpiva particolarmente il senso dell’umorismo; il suo essere grazioso, adorabile, dolce, solitario ed estremamente creativo.

I fratelli Harry e Pete Harrison, nel documentario “George Harrison: Living in the Material World” (2011) diretto da Martin Scorsese, ricordano George come un ragazzino arrogante, mai intimorito e con un sacco di capelli in testa. Risale proprio a quei tempi l’incontro prima con Paul McCartney e poi con John Lennon, al Liverpool Insititute. Erano gli anni 50, George Harrison aveva circa dieci anni e, seduto al secondo piano di un autobus che girava per Liverpool, suonava per John e Paul “Raunchy” di Bill Justis. In quell’occasione i due, che avevano già formato i The Quarry Men, chiesero a George di unirsi al gruppo come chitarrista.

George Harrison: «A quell’età volevo solo fare musica»

I The Quarry Men divennero presto The Beatles. Al gruppo si unì anche il batterista Ringo Starr e, in men che non si dica, fu il 1963. I quattro ragazzi di Liverpool erano già passati per Amburgo e qualche pasticcio, il loro iconico look era già stato definito: tutto era pronto perchè uscisse il primo album prodotto dal loro storico produttore George Martin.

George Harrison, appena ventenne e agli inizi della sua carriera, già padroneggiava la sua chitarra e in “I saw her standig there” lo dimostra in un assolo misurato, ma che è da far impazzire. Alle chiare influenze rockabilly derivate dai suoi ascolti, egli aggiunge il suo tocco personale. Nel secondo album del gruppo, “With the Beatles”, egli si cimenta anche nella scrittura. Compone “Don’t bother me”, un brano non particolarmente brillante e di cui neanche lui va troppo fiero, ma che gli regala una nuova consapevolezza: anche lui, come John e Paul, è in grado di scrivere canzoni per i Beatles.

Il 1964 è l’anno di “A Hard Day’s Night”. George abbraccia la chitarra Rickenbaker a 12 corde e nel disco si sentono i notevoli progressi fatti come musicista. In questo album egli scopre un suono che lo accompagnerà nel resto della sua carriera, influenzando anche altri chitarristi. Harrison fa la cosa giusta al momento giusto, senza mai esagerare, e lo dimostra magistralmente nel gran riff di “You can’t do that”.

George Harrison: «Noi eravamo normali, ma il resto del mondo era impazzito»

É l’anno di grazia 1965. Esce “Rubber Soul”, l’album che secondo George Martin è «destinato a far conoscere al mondo dei Beatles in versione adulta». Per la maggior parte dei Beatles, “Rubber Soul” è il loro album migliore. Un disco condito di taglienti toni emotivi – come “If I needed someone” scritta da Harrison -; frutto di pura sperimentazione. «La ragione – disse una volta Ringo Starr – credo vada cercata anche in certe sostanza che frequentavamo all’epoca…». Nello stesso anno usciva anche il secondo film interpretato da John, Paul, George e Ringo, “Help!”, diretto da Richard Lester.

La prima volta che ci rendemmo conto dell’esistenza di qualcosa di indiamo fu durante le riprese di Help! C’era qualcosa di strano che riguardava un indiano e quella setta orientale che aveva l’anello, e il sacrificio; e in un punto del set c’erano i sitar e altri strumenti: era il complesso indiano che suonava in sottofondo e George continuava a fissarlo.

John Lennon

Durante le riprese del film, uno yogi diede in regalo a ciascuno dei Beatles un libro: “The Illustrated Book of Yoga”. Dopo due anni George Harrison cominciò a praticare l’hatha yoga e ad appassionarsi sempre di più di musica indiana. Successivamente, egli si appassionò di filosofia indiana più in generale, divenne vegetariano, e decise di andare a Rishikesh dove incontrò lo yogi che gli aveva regalato il libro sul set di “Help!”.
Questa sua profonda spiritualità non poteva non riflettersi anche nella musica. In “Norwegian Wood”, grazie a George, fa il suo debutto il sitar: lo strumento esotico a cui si era avvicinato grazie allo Yogi of the Himalayas, Ravi Shankar.

L’anno successivo esce “Revolver”, un album che secondo George Harrison è la diretta continuazione del precedente. Le sperimentazioni che in “Rubber Soul” erano ancora in embrione, qui trovano la dimensione per divenire più mature. Questo album incarna la rivoluzione degli anni 60 che in Inghilterra più che altrove stava impazzando in ogni ambito: dal costume, al cinema, alla musica. Qui George sfida definitivamente il predominio compositivo di Paul e John, inserendo ben tre pezzi scritti da lui: “Taxman”, “I want to tell you” e “Love you to”.

«It’s funny how people just won’t accept change…»

Sperimentazione e maturità trovano la massima espressione nei Beatles del “Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band” del 1967. I Fab Four sono più uniti che mai e più impavidi di sempre nella loro ricerca di verità, magia, trascendenza. Il disco è un’avventura psichedelica, a partire dalla copertina; un vangelo fatto di pace e amore, acidi e spiritualità orientale, idee e speranze, e chitarre elettriche. Risucchiato, l’ascoltatore riemerge a galla soltanto a metà disco, nella pausa medidativa di George Harrison che, con in braccio il suo sitar, canta senza gli altri Beatles “Within you, without you”, un sermone sul materialismo e la fedeltà. Una pausa, appunto, da tanta gioisa indulgenza.

[“Within you, without you”] è una delle migliori canzoni di George. É anche una delle mie preferite tra quelle che ha scritto. É trasparente in quella canzone. La sua mente e la sua musica sono evidenti. C’è il tuo talento innato, è lui che ha creato quel suono.

John Lennon

Nel 1968 esce “The White album“, composto durante il ritiro in India presso il Maharishi Mahesh Yogi, durante una necessaria pausa che allontanasse anche fisicamente i Beatles dal vortice della Beatlemania. Ma se le canzoni nacquero in un contesto meditativo, la registrazione dell’album fu feroce, tesa, per nulla piacevole per nessuno. La ricerca spirituale fu d’ispirazione in questo album per comporre, tra le altre, “While my guitar gently weeps”.

Nell’estate del 1969 il disco “Abbey Road” esce dopo aver superato una crisi che sembrava essere definitiva per le sorti del gruppo di Liverpool. Il disco è pieno di gioia, ma probabilmente tutti sanno che sarà anche l’ultimo. Dagli studi EMI di Abbey Road, a Londra, avviene il vero congedo dei Beatles in cui George Harrison firma anche due dei suoi capolavori: “Here comes the Sun” e “Something”.

L’anno seguente esce “Let it be”, l’ultimo album scritto e registrato dai Fab Four. É il 1970: si apre un nuovo decennio, si conclude la storia dei Beatles. Gerge Harrison firma l’ultima canzone per la band: “I me mine”. Il pezzo è malinconia e sfinimento; l’album un canto del cigno che più triste e frammentario non avrebbe potuto essere.

“All things must pass”. George Harrison solista

Terminata l’esperienza collettiva dei Beatles, ciascuno dei quattro si proiettò verso una carriera solista. Una valida alternativa, o una continuazione artistica necessaria? Per George Harrison fu certamente la seconda. Nello stesso anno dello scioglimento, Harrison pubblica “All things must pass”. Egli aveva accumulato dei tempi dei Beatles così tante canzoni da riempire un triplo vinile, proprio come questo. Inoltre, nonostante fosse giovanissimo – aveva solo 27 anni – aveva raggiunto una profonda maturità artistica. Le sue profonde sperimentazioni e ricerche chitarristiche, cominciate nella band, continuarono anche da solista. In quest’album sono contenuti due pezzi che sarebbero diventati dei classici: “My Sweet Lord” e “What is Life”. E questo non fu che il suo nuovo inizio.

Molto resta del George Harrison chitarrista dei Beatles, nel George Harrison solista. Certamente la sperimentazione e la dimensione collettiva, che lui ha sempre ricercato anche dopo la fine dell’esperienza in una band. Ma più di tutto, resta la spiritualità: parte essenziale della sua vita, che lo faceva vivere in combatta con la dimensione assolutamente materiale del mondo moderno, in particolare dello star system in cui era coinvolto. Nonostante questo, però, egli era riuscito a trovare un compromesso senza disunirsi. Aveva trovato la via per la bellezza qui, nel mondo materiale e reale. E così ha creato la bellezza nel modo a lui più congeniale, abbracciando uno strumento a corde, afferrando una penna, creando musica.

Non sono che uno dei tanti che sa suonare un po’ la chitarra. So scrivere un po’. Non credo di saper fare nulla particolarmente bene, ma credo che, in un certo senso, sia necessario che io sia esattamente così.

George Harrison

Giorgia Lanciotti

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