Giacomo Leopardi, bullismo e sofferenza attraverso i versi: ”Il passero solitario”

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Di Stella Grillo

Poeta dalla personalità schiva, Giacomo Leopardi sviluppa un atteggiamento ritirato in seguito a episodi di bullismo dovuti al suo aspetto fisico  trascorrendo la sua giovinezza rifugiandosi nello ”studio matto e disperatissimo”. Non di rado, infatti, capitava che in giro per Recanati lo schernissero ; il poeta testimonia quegli episodi di bullismo attraverso i suoi versi: non tralasciando, tuttavia, l’importanza della solidarietà umana e del godimento dell’età giovanile nonostante le avversità.

Giacomo Leopardi, il bullismo e il dolore come strumento di conoscenza e riflessione

Giacomo Leopardi è spesso considerato nell’immaginario comune come poeta triste, non considerando il bullismo psicologico che, nel tempo, ha dovuto subire. Il poeta è associato al termine pessimismo come simbolo di tristezza; eppure, in una delle sue più note poesie La Ginestra, o il fiore del deserto sgretola questo mito che lo vuole perennemente in angoscia per partito preso. Sottolinea l’eroismo e la lotta della ginestra, nonostante il suo destino, esortando gli uomini alla solidarietà e alla creazione di legami; unico mezzo di difesa contro la debolezza del tempo presente.

Il malessere di Giacomo Leopardi, e il successivo bullismo, iniziano nel 1815 circa; il giovane Giacomo riscontra i primi problemi fisici di tipo reumatico. L’esordio della malattia si presenta con affezione polmonare che, in seguito, gli causa deviazione delle spina dorsale; crescita lenta, malattia di Crohn, disturbi agli arti. La patologia di Leopardi non ha, per quell’epoca, un’origine chiara tanto che lo stesso Giacomo ne Le ricordanze la definisce ‘’cieco malor’’. L’ipotesi conclamata resta la malattia di Pott una sorta di tubercolosi ossea. Questa condizione di salute precaria è motivo di dolore e isolamento, nonché di bullismo poiché oggetto di derisione. Tuttavia, il patimento sperimentato non rimane sedimentato in una bolla di avvilimento statico, ma diventa motivo di riflessione nonché origine di tutta la filosofia poetica di Leopardi, le tre fasi del pessimismo leopardiano: individuale, storico e cosmico.   In Canto notturno di un pastore errante nell’Asia dirà:

«O forse erra dal vero, / mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: / forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale.»

Giacomo Leopardi, il bullismo e la percezione di solitudine: Il Passero solitario

Il Passero solitario è il testamento dell’anima giovanile di Leopardi. Composto nel 1831, questo componimento è un vero e proprio canto di solitudine; Leopardi si sente escluso dalla società per via della sua condizione fisica. Il bullismo subito da Giacomo Leopardi a causa del suo aspetto, induce il giovane di Recanati all’autoesclusione dalla vita sociale della città. Nei versi de Il passero solitario il poeta crea un parallelismo sulla sua condizione di solitudine e quella del passero che, in primavera, è solito cantare da solo. Traspare da questi versi un senso di esclusione esistenziale e di rimpianto per una gioventù che fugge. La lirica si apre con la descrizione di una paesaggio bucolico e con l’immagine di un passero e dei suoi gorgheggi armoniosi. La primavera è ormai al suo culmine, e i suoi doni si rispecchiano per i campi rigogliosi e per l’aria ormai tiepida.

Parallelismo fra il passero solitario e la vita del poeta

Dal quadro arcadico, però, emerge il contrasto con il passero che immerso nei suoi pensieri osserva tutto da lontano; in disparte, non partecipa alla felicità degli altri volatili, ma canta appartato finché non discende la sera. Nella strofa centrale della poesia si realizza la metafora: il parallelismo fra il passero e la vita del poeta. Tuttavia, se il riserbo del volatile è donato da predisposizione naturale, osservare in disparte la vita che si rinnova in primavera, metafora riferita alla giovinezza, è per Leopardi un’imposizione.

Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.

Leopardi è cosciente, percepisce questo innaturale senso che lo porta a isolarsi; non gli pare comprensibile questa ambivalenza di desideri: il rimpianto di un allontanamento che si impone e, nel frattempo, questa brama di fuggir lontano dal luogo natio. Non comprende il perché la sua anima rifiuti le gioie giovanili, e proprio questa mancanza di comprensione delle sue stesse azioni lo porta a pensare che questo sia il suo personale destino. Successivamente, si mette a confronto con la gioventù del luogo:

Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo.

L’intensa malinconia leopardiana, in questi versi, è scandita dall’uso di due verbi: la gioventù che si prepara ai festeggiamenti mira ed è mirata. Un passaggio importante quello sottolineato dal poeta, ammirato per le vie di Recanati solo con aria di derisione. Giacomo vorrebbe essere apprezzato come gli altri; ma la sua differenza fisica lo pone in una situazione di svantaggio, lo porta a celarsi per non sentir bisbigliare e ridergli dietro quei giovani che, spensierati, possono godere la loro età dorata.

L’esortazione a godere la gioventù nonostante le avversità

Al tramonto del sole, Giacomo torna alla realtà e all’ennesimo paragone con il passero solitario; il volatile non rimpiangerà la sua vita appartata, poiché connaturata alla sua natura. Mentre il poeta, in futuro, si pentirà di questo tempo sprecato e perduto. Una raccomandazione che Leopardi sente di dover fare nel Sabato del Villaggio dove la struggente malinconia dell’attesa della festa, si disperde in noia e tristezza; ma, nonostante tutto, il Leopardi pessimista esorta a vivere: perché vero che, come diceva Ovidio, Tempora labuntur e gli uomini fuggono insieme al tempo, ma bisogna godere dell’età fiorita quando è il momento, senza sciuparla nell’attesa nonostante gli accadimenti.

Garzoncello scherzoso,
cotesta etá fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

Stella Grillo

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