Giornalismo sportivo e donne: un binomio patriarcale

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Di Redazione Metropolitan

Reduci da quanto accaduto recentemente a Greta Beccaglia in diretta TV, sono partite spontaneamente alcune riflessioni, seguite da altrettante domande: ma per quale motivo, da sempre, il giornalismo sportivo predilige la presenza femminile, talvolta nonostante la scarsa preparazione in materia, pur di sfruttarne l’avvenenza estetica? Qual è lo scopo e cosa c’è di mortificante in tutto ciò?

Ricordiamo il caso

Qualche giorno fa, dopo la partita disputata tra Empoli e Fiorentina, all’uscita dello stadio c’era una giovane inviata, Greta Beccaglia, in attesa di svolgere il proprio mestiere ed intervistare qualche tifoso, per chiederne i pareri. Nel bel mezzo del servizio, in diretta televisiva, un uomo si è avvicinato alla ragazza che l’ha palpeggiata senza il suo consenso, dunque, violentandola.

Il giornalismo sportivo è patriarcale

Ricordare ciò che è successo non è fuoriluogo o eccessivo, infatti, partendo da questo fatto c’è da interrogarsi per quale motivo, in quel dato contesto, ci fosse Greta, una giovanissima donna di bella presenza e perché non Bruno (nome di fantasia per un personaggio di altrettanta fantasia), energumeno villoso e di mezza età, con la passione per il calcio. Chi vorrà fare polemica, tirerà fuori il discorso “Avete voluto la parità dei diritti…”, ma no, mi dispiace dirvelo… Le pari opportunità non c’entrano proprio niente, bensì, c’entra sempre lui: il patriarcato.

Il giornalismo sportivo non è un genere che abbia effettivamente un target ben specificato, eppure, l’impostazione che gli viene data dalla televisione, in particolar modo quella televisione esercitata dalle piccole reti locali, è indirizzata unicamente ad un pubblico maschile, rendendolo così “roba per uomini”.

Attualmente, i format sportivi offrono sempre più spesso la stessa tipologia di contenuto: battute umoristiche di dubbio gusto e la presenza assidua si procaci figure femminili, non importa se in studio o in collegamento, l’importante è che ci siano per essere date in pasto all’occhio e alla fantasia del tifoso medio.

Queste giovani donne vengono costantemente costrette a condividere lo schermo con conduttori maturi, i quali si rivolgono loro con toni paternalistici e di superiorità, come a dire “Ringraziami, ti sto lasciando leggere i risultati delle partite”. Le inquadrature, sempre più imbarazzanti, concentrate a catturare soltanto le scollature, le curve dei loro corpi, riducendole a bambole afone, carne per aumentare l’audience e lo share.

Lo sport non oggettifica

L’oggettificazione della donna consiste in un’altra forma di molestia, non meno tossica e nociva di un contatto non richiesto.

È quanto meno inaccettabile ed impensabile che interi canali televisivi si tengano in piedi su fondamenta costruite su corpi ipersessualizzati, anche se, il problema in sé per sé non è il programma sportivo quanto il pensiero e la cultura patriarcale di chi c’è dietro che, a sua volta, è figlio di una società marcia. Trattasi a tutti gli effetti di una violenza di genere, l’ennesima.

Ridurre una persona soltanto ad essere un corpo desiderabile e desiderato, privandola dell’aspetto intellettuale ed intellettivo è quel che più di svilente possa esistere; dunque, se rincorrere un pallone o recitare le solite quattro barzellette da bar non attirano più il pubblico, forse c’è qualcosa da dover rivedere… E non è proprio il caso di rallegrare il tutto esercitando violenze simili sulle donne. Perché lo sport è sport, è per tutti e non oggettifica.