Nell’anno del Signore 2022 il bullismo è una problematica ormai riconosciuta e accettata, quando non effettivamente affrontata con le opportune metodologie correttive. Istituzionalizzato, se vogliamo.

Un recente, faticoso riconoscimento ufficiale conquistato, come per gran parte di quanto riguardi le questioni psicologiche, sociali e sociologiche che attanagliano l’uomo moderno, più da una pressioni più o meno indirette dal basso di cinema, letteratura e cronaca che da un’accettazione politica in senso lato. Una presa di coscienza culturale, perché il problema è culturale e perché è stata la cultura a porlo come non più ignorabile. In questo anche il cinema ha avuto la propria parte, proponendo la tematica ex novo o riprendendola da contesti meno popolari e ricucinandola per il grande pubblico.

Il bullismo al cinema: la prima avanguardia

In questo senso “I turbamenti del giovane Torless”, adattamento del 1966 del romanzo d’esordio di Robert Musil di sessant’anni prima, è la classica mosca bianca. Pur nelle vesti di vero e proprio romanzo di formazione ambientato all’interno di un rigido collegio militare austro-ungarico, ha gran parte della propria ossatura costituita dagli elementi di sottomissione virile, bullismo e prevaricazione tipici degli ambienti militari. Una declinazione senza dubbio avanguardistica rispetto ai tempi, ma che il contesto specifico riduce inevitabilmente a un mondo elitario e limitato. Passeranno altri dieci anni prima che il cinema torni a toccare certi argomenti. E lo faccia nella quotidianità dell’uomo qualunque, non all’interno delle spesse e omertose pareti di un’accademia militare. Dopo anni di rifiuti, Stephen King riesce a veder pubblicato il proprio romanzo d’esordio, “Carrie”, nel 1974.

Visto il successo commerciale del romanzo, quasi subito le case cinematografiche si interessarono ad una versione per il grande schermo. A spuntarla è Paul Monash, che ne affida la regia a Brian de Palma. Il film rappresenterà il caposaldo nell’affrontare un certo tipo di tematiche. Carrie è una ragazza trascurata e introversa, soffocata da una madre nevrotica e cristianamente medievale, un intero universo muto costretto in un corpicino esile. Non la miglior condizione per sopravvivere a quella giungla per adolescenti che è il liceo americano del midwest. L’arrivo del menarca nelle docce scolastiche e la sua totale inconsapevolezza delle dinamiche del proprio corpo sono la goccia che fa traboccare il vaso. “Metti il tappo!” diventa l’urlo derisorio che inizia ad accompagnarla quotidianamente tra i corridoi scolastici.  

Il bullismo nel cinema: Carrie indica la strada

Nel tentativo di limitare l’abisso che la divide dai compagni, i responsabili dell’istituto fanno in modo che passi più tempo con loro in vista del ballo scolastico di fine anno. Ma l’ennesimo, crudele scherzo nella notte più importante dell’anno corrisponderà anche alla presa di coscienza da parte di Carrie dei propri poteri paranormali. In un climax di frustrazione e umiliazione si scaglieranno senza pietà contro chiunque ne sia a tiro. Dal romanzo sono stati tratti più adattamenti. Il primo, con Sissy Spacek nei panni di Carrie, solido e per certi versi destabilizzante per tematiche – il bullismo declinato in prospettiva femminile – e la loro esposizioni in salsa horror; un trascurabile, primo remake del 2002 per un’ipotetica serie tv mai decollata; il remake firmato da Kimberly Pierce nel 2013 che attualizza il concetto di base e lo arricchisce di ulteriori venature psicologiche.

Scossa l’impasse, si deve aspettare fino al 1984 perché la tematica entri davvero nell’immaginario popolare. Con Karate Kid, il John Avildsen di “Rocky” racconta una storia all american di oppressione e riscatto, facendo ricorso alla grammatica immediata e favolistica che lo contraddistingue. Arti marziali, retorica contrapposizione di bene vs male, esoticità d’effetto. Il film è un successo planetario e contribuisce alla fondazione filmica dell’ archetipo filmico del bullo moderno, su cui il cinema più popolare costruisce migliaia di pellicole negli anni a seguire.

Gli epigoni moderni

Bisogna aspettare gli anni dieci perché nei confronti della tematica venga assunto un approccio meno fumettistico e più realista. “Bully” di Larry Clark, tratto dal romanzo “Bully: a true story of high school revenge” di Jim Schutze è uno spaventoso tuffo nel puro nichilismo, dove la vessazione come esercizio di potere si evolve in qualcosa che ha più a che vedere con l’oscena proiezione di un totale vuoto interiore piuttosto che con le convenzionali storture di formazione e socializzazione.

Mean Creek” (2004) di Jacob Aaron Estes recupera lo scheletro narrativo di “Stand by me” (Rob Reiner, 1986) e ne ribalta i presupposti. Le sue sono dinamiche che trasformano il romanzo adolescenziale di formazione e transito all’età adulta in un sanguinoso rito di passaggio e di inevitabile patto col diavolo. “A girl like her” (Amy S. Weber, 2015) cavalca le ultime onde del mockumentary e mette in scena il classico found footage su una quindicenne e sul suo tentato suicidio dopo mesi di vessazioni da parte delle compagne. Discusso e non apprezzato all’unanimità, rappresenta di fatto un efficace esempio di quelle che sono le più moderne soluzioni narrative scelte per affrontare il tema.

Andrea Avvenengo

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