Il Colibrì: recensione del film

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Di Carola Crippa

Ad aprire la 17° edizione della Festa del Cinema di Roma c’è Il Colibrì, film di Francesca Archibugi tratto dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi e vincitore del Premio Strega 2020. 

La pellicola segue le vicende di Marco Carrera (interpretato da Pierfrancesco Favino), medico la cui esistenza è segnata da una serie di tragedie, di lutti e di dolori. Nel cast troviamo anche Bérénice Bejo, Kasia Smutniak, Nanni Moretti, Laura Morante, Sergio Albelli, Benedetta Porcaroli, Francesco Centorame e Massimo Ceccherini.

Fabula ed intreccio non coincidono nell’andamento della pellicola. Frequenti sono i flashback e i flashforward che rendono la narrazione più dinamica e meno monolitica, generando la curiosità dello spettatore. Fanno da sfondo alle vicende una Firenze borghese e la Toscana (percepibile anche nelle cadenze dei personaggi), Parigi e Roma.

Il Colibrì: tra dolori e traumi generazionali

il colibrì
Pierfrancesco Favino e Bérénice Bejo in una scena de Il Colibrì © Romacinemafest

“Colibrì” è il soprannome di Marco che, a causa della sua corporatura esile, viene chiamato così dalla madre e dai fratelli. Tuttavia, il soprannome assumerà una dimensione più ampia, diventando l’emblema dello stile di vita di Marco e del suo modo di affrontare i traumi: come il volo del colibrì, anche Marco sembra essere immobile nell’attraversare i lutti e i dolori. 

La sua vita, apparentemente privilegiata, è un susseguirsi di eventi traumatici: il rapporto burrascoso dei genitori, il suicidio della sorella, l’amore platonico per l’amica Luisa e il suo matrimonio infelice con Marina. L’uomo resiste, affrontando stoicamente ogni momento di dolore. Non sceglie quasi mai, preferisce rimanere in una sorta di limbo, senza mai agire fino in fondo o a prendervi parte. L’unico episodio in cui il protagonista dimostra tutta la sua infelicità è in occasione della perdita dell’amata figlia. Tuttavia, grazie alla nipote Miraijin, riesce a donare nuovamente un significato alla sua esistenza. 

Fondamentale sarà il finale, in cui l’uomo cercherà di spezzare il trauma generazionale di dolori improvvisi che ha segnato la sua intera famiglia, a partire dal matrimonio dei genitori. Marco compie una scelta che, per quanto ricca di infelicità, riesce a rompere il circolo vizioso in cui la famiglia Carrera sembrava essere intrappolata. Per la prima volta in vita sua, l’uomo sceglie per se stesso e per gli altri: non è più immobile e in balia degli eventi.

Salute mentale e rappresentazione di genere

Tema ricorrente in tutto il corso del film è quello della salute mentale. La sorella Irene, la moglie Marina e la figlia Adele soffrono di disturbi psichici costante di tutta la loro esistenza. Marco, però, si dimostra inerte, rimane uno spettatore senza quasi mai capire, o effettivamente, agire per aiutarle. Solo nel caso di Adele l’uomo riuscirà a snodare la rete immaginaria di ansie e preoccupazioni che intrappola la bambina. La rappresentazione, tuttavia, rimane un po’ troppo stereotipata: sono i personaggi femminili a soffrire, e quelli maschili a raccogliere i cocci. La visione filtrata di Marco fa sì che tutti i personaggi femminili appaiano come deboli, vulnerabili, indecisi ed enigmatici. Gli uomini, invece, sembrano stoici, alle volte risoluti, sani nella loro follia (come nel caso dello psichiatra, interpretato da Nanni Moretti o dello iettatore Duccio, interpretato da Massimo Ceccherini). 

Il film, prodotto da Fandango e Rai Cinema, con la fotografia di Luca Bigazzi, sarà disponibile nelle sale a partire dal 20 ottobre.

Carola Crippa