Il Piccolo Principe: non solo una favola per bambini, è una lezione sui rapporti umani

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Di Redazione Metropolitan

Il primo libro che ho letto è “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupery: fu il primo libro che i miei genitori mi regalarono da bambina, non appena manifestai la volontà di volerne leggere uno. La mia età sicuramente gli facilitò la ricerca, per quella retorica che vuole questo libro come “il primo”, necessario ad inaugurare una passione da coltivare per tutta la vita. In effetti per me è stato così. Quando ho finito di leggerlo, mi sono sentita ‘battezzata’, pronta a tutta una serie di altre letture più impegnative se vogliamo. Perché il piccolo principe è sì, il libro dei bambini per antonomasia, ma anche quello che ti apre al mondo dei grandi, pur riservando delle lezioni di vita proprio agli adulti, perché “i grandi non capiscono mai niente da soli ed è faticoso, per i bambini, star sempre lì a dargli delle spiegazioni”. Forse anche per questo non si dovrebbe mai smettere di leggerlo: il libro ed i suoi personaggi rappresentano la riscoperta del valore dei sentimenti e dei legami affettivi. Un promemoria di ciò che per noi è realmente importante ma che per paura di soffrire spesso tendiamo a dimenticare. Pubblicato il 6 aprile del 1943 a New York nella traduzione inglese e qualche giorno dopo nell’originale francese, Le Petite Prince compie ieri 78 anni. Il racconto di Antoine de Saint-Exupery è uno dei capolavori della letteratura mondiale: commovente e di facile lettura, riesce a trattare tematiche profonde con una semplicità disarmante.

Il libro inizia con il ricordo e la sensazione di fallimento sperimentata all’età di 6 anni dal narratore, che ci mostra immediatamente quanto le prime esperienze possano influenzare il nostro diventare grandi. In particolare, gli adulti sono raffigurati come “soffocatori di umanità”, persone adattate alla normalità della loro freddezza, del loro cinismo. Ad uno sguardo attento, infatti, non può sfuggire come l’atmosfera sia pregna di nostalgia e rimpianti, come cioè la storia di Exupery racconti di un sogno mai diventato realtà, di una vita mai vissuta: nella prefazione, spiega di aver rinunciato ad una delle sue più grandi passioni, il disegno, perché nessuno degli adulti lo capiva – il famoso ‘cappello’ che in realtà era un boa che mangia un elefante. Dal quel momento, decide quindi di rivolgere il suo interesse agli aerei. Il narratore è infatti un pilota che – precipitato nel deserto del Sahara – racconta del suo incontro con il Piccolo Principe, incarnazione di quel bambino che non era riuscito a vivere in lui e che ad un tratto gli va incontro. Una figura senza tempo che si presenta con la sua fragilità accattivante e che guarda al mondo degli adulti cogliendone tutti i suoi paradossi. Simbolo di un’età che “i grandi” spesso dimenticano di aver vissuto e che egli vede come persone preoccupate solo di sé stesse, il Piccolo Principe è un personaggio che dà nuova luce al mito dell’infanzia, fatta di stupori e meraviglie. Con una domanda – “Mi disegni, per favore, una pecora?” – ha inizio quel rapporto d’amicizia in cui il Piccolo Principe sembra essere una metafora dell’infanzia nascosta e quasi dimenticata del pilota.

Il Piccolo Principe è un misterioso bambino proveniente dall’asteroide B-612, in cui vive insieme ad una rosa – per lui molto rara – tre vulcani, e deve difendersi dalla crescita di giganteschi arbusti, i baobab. Un giorno la rosa – sua unica amica, con cui ancora non sa di aver instaurato un rapporto sincero e duraturo – si prende gioco di lui, raccontagli di essere l’unica pianta di quel tipo nell’intero universo. Il Piccolo Principe decide quindi di partire e durante il suo viaggio incontra vari personaggi, ciascuno abitante di un diverso pianeta, attraverso i quali vengono rappresentati i difetti più comuni in cui l’essere umano incappa nel suo ‘percorso di maturazione’. Nel racconto, l’autore illustra varie tipologie di stereotipi della vita adulta: il re che regna su tutto e su niente; il vanitoso che non sente altro che lodi; l’ubriacone che beve per dimenticare la vergogna di bere; l’uomo d’affari che passa il suo tempo a contare le stelle perché crede che contandole gli apparterranno; il lampionaio che passa la sua vita a spegnere ed accendere il lampione; ed infine il geografo, che basa il suo lavoro sulle ricerche degli esploratori ma non avendo nessun esploratore sotto mano, si crogiola nell’ignoranza. Fino a quando non arriva sulla Terra, dove incontra un serpente che, simboleggiando la morte, gli spiega che il suo morso può farlo arrivare a casa. Il Piccolo Principe scala poi una montagna e quando arriva in cima, imbattendosi in un roseto, capisce che il suo asteroide non aveva nulla di speciale. A quel punto arriva la Volpe, un animale selvatico che impara ad addomesticare e da cui apprende il significato profondo, talvolta doloroso, dell’amicizia, intesa come legame sincero in grado di rendere unico il modo di percepire il mondo. Il loro incontro è un vero e proprio trattato sull’importanza dei legami nelle relazioni umane: sarebbe piaciuto allo psicoanalista inglese John Bowbly, grande teorico dell’attaccamento. Perché la Volpe in effetti spiega al Piccolo Principe il valore di creare dei legami. Gli dice: “Se tu mi addomestichi noi avremo bisogno l’una dell’altra”, con un linguaggio semplice ma al contempo poetico che illumina il Piccolo Principe sull’importanza dei legami affettivi. Ciò che per noi distingue una persona dall’altra è il modo in cui decidiamo di dedicarle tempo e attenzioni, accentando i suoi punti di forza quanto le sue fragilità. Essere addomesticata per la Volpe vuol dire creare un legame, un’affiliazione reciproca: un bisogno spesso confuso con il concetto di “dipendenza” che in questo caso non ha nulla a che vedere con la patologia, ma con il desiderio assolutamente legittimo di ogni individuo di stare vicino a chi si vuole bene.

Ma perché ci leghiamo? Nella Teoria dell’attaccamento, Bowbly lo spiega facendo riferimento ad un bisogno di salvezza e di sicurezza che, fin dalla nascita, indirizza l’attenzione ed il legame che le persone riservano a pochi individui significativi. La tendenza alla formazione di forti legami con alcune persone è considerata normale e funzionale fin dai primi mesi di vita. Se si riflette sulla relazione madre-bambino si pensa quasi certamente che sia il bambino ad attaccarsi alla mamma perché in lei trova nutrimento, calore, protezione. Ma il bisogno di attaccamento è anche presente nella madre, è un rapporto di soddisfazione e di relazione reciproca. Il fatto che il bisogno iniziale sia quello della sicurezza, può aiutare a comprendere meglio il dolore e la sofferenza legate al senso di perdita emergenti anche nell’adulto. Un senso di perdita che anche il Piccolo Principe sente di vivere senza la sua rosa. Il rapporto con la volpe lo aiuta infatti a fare chiarezza su ciò che prova per lei: venendo a conoscenza del roseto, la rosa avrebbe dovuto perdere qualsiasi importanza per il Piccolo Principe, e invece “Voi siete belle ma siete vuote” – dice – Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. […] Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa”. Così capisce che non è speciale in quanto unica nel suo genere, ma perché le vuole bene. Perché esiste un legame tra loro. Perché “è il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.

Il Piccolo Principe, nell’incontro con i vari personaggi, ci insegna come ognuno abbia bisogno della presenza dell’altro per definirsi: il geografo non può fare il suo lavoro senza gli esploratori, il vanitoso non può essere tale senza nessuno che lo ammiri, il re non può essere re senza sudditi. L’importanza dei rapporti e dei legami è il filo conduttore di tutta la favola. Il libro è il racconto chiave della vita, un po’ per l’eterno sogno di un’infanzia perduta, un po’ perché rappresenta quel senso di liberazione dal mondo coercitivo delle “persone grandi”: per le parole con cui esprime una fiducia incondizionata nell’amore e nell’amicizia. Degli adulti viene sottolineata l’incapacità di dialogo, il loro rinchiudersi nel narcisismo. Ma questa critica dei loro vizi e delle deformazioni resta alla fine solo rigida e sterile perché manca qualsiasi accenno nel racconto ad una possibilità di riscatto, di cambiamento. La cosa che colpisce è infatti che il Piccolo Principe non finisce come tutte le fiabe: il lieto fine sarebbe stato quello di indicare il modo in cui gli uomini potessero correggere il loro comportamento per vivere realmente amore e fedeltà. Invece il lieto fine non c’è: il pilota riprende la sua vita da adulto, più triste che mai, mentre il Piccolo Principe fa ritorno al suo pianeta per ricongiungersi con la sua rosa, che poi altro non era che sua madre. Proprio la relazione madre-figlio è infatti quella cui si fa riferimento. Per poter comprendere cosa impedisce al Piccolo Principe di realizzare il suo messaggio d’amore e di fedeltà sulla terra dobbiamo ricollegarci al mistero della rosa, che sembra racchiudere il motivo della singolare malinconia che aleggia sulla narrazione. La relazione con la rosa-madre sembra ambivalente: il fiore è da un lato egocentrico, dall’altro indifeso, al punto che il Piccolo Principe deve metterla sotto una campana di vetro. “Perché la rosa ha le spine?” chiede al pilota appena conosciuto, proprio per sottolineare quella ambivalenza, senza però voler mettere in dubbio la bontà della rosa che “deve” apparire solo inoffensiva. E il Piccolo Principe lo capisce, quando parlando con la Volpe si rende conto di quanto la rosa-madre lo abbia in realtà semplicemente ‘addomesticato’: ogni suo rimprovero era una manifestazione d’amore e di tenerezza. Questo vuole dirci la favola di Saint Exupéry, che ha trasmesso a infinite generazioni di lettori grandi insegnamenti, se non solo si è fatto uso degli occhi ma anche del cuore.

Francesca Perrotta