Con il termine Proibizionismo si intende il periodo storico, estesosi dal 1920 al 1933, nel quale negli Stati Uniti sono stati vietati, tramite il XVIII emendamento ed il Volstead Act, la fabbricazione, importazione, trasporto, vendita e consumo di alcool; una sorta di tentativo di “purificazione” dal consumo di bevande alcoliche, noto infatti anche con il nome di “The Noble Experiment”.

Nonostante queste nobili intenzioni, il Proibizionismo non può che definirsi come un esperimento sociale fallimentare. Quando si pensa all’America del secondo e terzo decennio del 1900, infatti, ciò che salta alla mente è Al Capone, associazioni mafiose e di contrabbando e generalmente un periodo di frenesia e disordine, esattamente il contrario di quello a cui si auspicava. Ed è stato proprio il cinema a rappresentare al meglio questo paradosso: il Proibizionismo non ha fatto altro che creare terreno fertile per pellicole incentrate su lotte tra gangster, contrabbandieri ed uno stile di vita caratterizzato da eccessi e perdita di controllo.

C’era una volta in America, il Proibizionismo di Sergio Leone

Uscito nel 1984, C’era una volta in America, è una delle pellicole più iconiche quando si parla di Proibizionismo. Un gruppo di giovani ragazzi ebrei nella New York degli anni 20 del 1900, forma una vera e propria gang, iniziando a fare la propria fortuna prima con piccoli furti e ricatti per conto del “boss” del quartiere “Bugsy”, successivamente riescono a guadagnare autonomamente proprio sfruttando il contrabbando di alcool. L’opera di Leone si incentra sul personaggio di “Noodles”, interpretato da Robert de Niro, che seguiamo dalla sua giovinezza fino alla vecchiaia.

Noodles, Max, Cockeye e Patsy sono la perfetta rappresentazione dell’ironia e paradosso che hanno caratterizzato quell’epoca: giovani delinquenti che si arricchiscono proprio su ciò che era vietato. Gangster, contrabbandieri, mafiosi erano coloro che si voleva annientare con il cosiddetto “Noble Experiment”, quella parte della società considerata come parassita; invece, C’era una volta in America, ci mostra come l’intera popolazione americana si nascondesse dietro una forte ipocrisia: il bar segreto fondato dai quattro gangster protagonisti della pellicola di Leone era, infatti, frequentato da ogni membro della società, pronto a brindare beffeggiandosi del divieto.

Iconica la scena in cui, annunciato il termine dell’era proibizionista, nel 1933, i quattro organizzano un party proprio nel bar che li ha arricchiti. A renderla memorabile è la torta a forma di bara con l’iscrizione “Prohibition” indicando la morte di quello che era visto come null’altro che un limite alla libertà; ma mentre gli invitati gioiscono, i quattro protagonisti si rammaricano poiché era proprio quel divieto ad aver loro permesso di riscattarsi, di scappare dalla povertà che ha caratterizzato la loro gioventù, immischiandosi nel contrabbando e acquistando progressivamente un sempre maggiore potere, Max, infatti, diventerà addirittura senatore.

L’effetto indesiderato del Proibizionismo nel cinema

Uno studio effettuato dall’istituto di ricerca californiano “Alcohol Research Group” ha dimostrato che dei 115 film prodotti negli Stati Uniti dal 1929 al 1931, il 66% rappresentava persone che consumavano alcol e, inoltre, tre quarti di quei film trattavano l’essere ubriachi come qualcosa di eccitante e fonte di divertimento. Questa ricerca denota chiaramente come il “Noble Experiment” avesse avuto un immediato effetto contrario: tutto ciò che è collegato all’alcol, dall’eccessiva consumazione al suo contrabbando, sono diventati nel mondo del cinema temi irresistibili.

Infatti, mentre il divieto era ancora in atto, ironicamente film come “Little Caesar” (1931) e “Scarface” (1932) venivano rilasciati, ma quell’era non ha influenzato solo la realtà cinematografica della prima metà del 900. Oltre a C’era una volta in America, film iconici che trattano questo tema sono anche: “Gli intoccabili” (1987) di Brian De Palma, “The Cotton Club” (1984) di Francis Ford Coppola e, per quanto riguarda il nuovo secolo, merita anche essere citato “Era mio padre” (2002) di Sam Mendes.

Aurelia Carbone

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