Chi è il soggetto nell’epoca della sua riproducibilità tecnologica (mutuando l’espressione dal titolo della nota opera di Walter Benjamin)? Come è cambiata la relazione del soggetto con la propria psiche? Ha ancora senso parlare di soggetto?

L’identità di mondo e cervello, l’automa, non forma un tutto, ma piuttosto un limite, una membrana che mette in contatto un fuori e un dentro, li rende presenti uno all’altro, li confronta o li mette di fronte (…) La violenza folle di Alex, in , è la forza del fuori prima di passare al servizio di un ordine interiore demente. In l’automa si guasta dal di dentro prima di essere lobotomizzato dall’astronauta che penetra dal di fuori. E in , come distinguere quel che viene da dentro e quel che viene da fuori, percezioni extrasensoriali o percezioni allucinatorie? Il mondo-cervello è strettamente inseparabile dalle forze di morte che bucano la membrana nei due sensi. (Deleuze, “L’immagine-tempo”)


Ha ancora senso parlare di “soggetto”? Il gioco adialettico e postmoderno fra simulacri (apparenze che non hanno relazione con alcuna realtà), automi (“identità di mondo e cervello”) e icone (copie) si svolge – come replicandosi in un apparentemente infinito quadro su Marilyn di Andy Warhol – nelle stanze (non infinite) dei social networks, nel territorio digitale, attraverso un simulacro narrativo (che non assurge – magari! – alle vette klossowskiane de “la prosa di Atteone”, minuziosamente analizzata da Foucault).

Tale simulacro interagisce con un fuori voyeuristisco, così sfuggendo alla scatola del computer, divenuta macchina del godimento (fittizio), con il suo dispiegamento di forze di superficie che non sembrano punto interessarsi al modello originario e che, anzi, premono per fare una risentita irruzione nel mondo. In questa ribellione, v’è una forza che trasgredisce, che si oppone al reale comunemente inteso, o un nuovo nascondimento nell’assolutamente altro e pure identico, nel sosia di noi stessi, svincolato dal contatto con la nostra psiche, ma di uguali fattezze, immagine allo specchio che si libera dalla violenza del riconoscimento dello sguardo?

Non è un caso ed è degno di nota come stiano bussando con prepotenza, alle porte delle stanze asserragliate, gli archetipi junghiani, quegli “elementi incrollabili dell’inconscio” che “esistono solo in potenza”, e che conferirebbero un principio di realtà a un inconscio collettivo artefatto, nonché delineerebbero una grammatica delle potenze in cui l’elemento umbratile e quello corporeo si ritroverebbero. Ma: può esistere un atto di conoscenza senza il riconoscimento della cosa conosciuta?


La conferenza internazionale, curata da AIPA, ARPA e CIPA, “Psiche e ambiente. La prospettiva junghiana a confronto con una realtà in profonda trasformazione”, svoltasi a Roma, il 5 Luglio, presso il Palazzo dell’Informazione, indagava l’ambiente come psiche o come diffusione esterna di contenuti psichici, le ritenzioni mnestiche dell’uomo premoderno e moderno rintracciabili nell’uomo postmoderno, nonché la modificazione dei processi di internalizzazione in relazione allo sviluppo dei social network, la possibilità e volontà del soggetto di nascondersi, di ritrarsi dietro la maschera, la resistenza o la scomparsa del soggetto fino a qui inteso tale, lo sviluppo di specifici disturbi psichici come sintomi dell’inadeguatezza della relazione con noi stessi e con il mondo, ma soprattutto rivelatori dell’assenza di relazioni.

Nell’epoca della “riproducibilità tecnica”, non più solo dell’opera d’arte (Benjamin), ma del soggetto creatore stesso, proteiforme, dissociato dalla propria voce, si assiste allo sviluppo di un’inerziale e massificante “potenza del falso” e dell’indistinto. Nell’agglomerato mediatico il processo dialettico avviene a distanza, dall’altro e da sé, in una convergenza di istanze automatiche, e in stanze psichiche condivise, o quantomeno preordinate dalla giusta prassi del bannaggio.

Swiss psychiatrist Carl Gustav Jung (1875 ? 1961), the founder of analytical psychology, 1960. (Photo by Douglas Glass/Paul Popper/Popperfoto/Getty Images)


L’idea di ego e soggettività non è più valida” e “il problema attuale è la mancanza di soggetto”, afferma il professore Toshio Kawai dell’università di Kyoto, presidente IAAP, che studia – influenzato da concezioni scintoiste e buddiste – il concetto di “psiche estesa”. Nota, inoltre, come sia sintomatico l’aumento mondiale di casi di ASD (“Autism Spectrum Disorder”, disturbi dello spettro autistico) e che ciò sarebbe germinato dalla tendenza ad uno stato di indeterminazione, di inerzia e di inazione, nonché dalla pervicace applicazione della “logica del contingente” (non scegliere, non fare) che – oltre ad essere anche una patologia – rappresenterebbe un fatto storico e culturale del mondo postmoderno e rivelerebbe, al contempo, un’emersione di forze impotenti e potenziali.

Come Agamben afferma nel suo saggio su “Bartebly, the scrivener” di Melville, Bartleby lo scrivano che, fin da subito, smette la sua propria attività, la scrittura, decide di non essere, sceglie non l’atto, ma la potenzialità. Segue lo psichiatra e didatta CIPA Massimo Caci che, nel mondo del “tutto è connesso”, riflette sul concetto di paesaggio in Erwin Straus e Jung. In “Paesaggio e geografia”, lo psichiatra tedesco – che lavorò nel noto ospedale Burghölzli di Zurigo, dove si formarono anche Jung (prima assistente di Bleuler e poi medico responsabile) e Binswanger – sottolinea la differenza, nella conoscenza dello spazio, fra il sentire legato alle sensazioni e il percepire, che denomina, attraverso un atto riflessivo, tali sensazioni.

Distingue, inoltre, lo sguardo di colui che osserva il paesaggio che muta perché il guardante man mano si sposta (come anche cambiano l’orizzonte e l’ombra), e quello di colui che si china su una cartina geografica, naturalmente priva d’orizzonte e zone d’ombra. E conclude che, per Straus, “lo spazio della sensazione sta alla percezione come il paesaggio sta alla geografia”. Per Jung ciò che Straus chiama paesaggio è “paesaggio notturno”, coscienza crepuscolare, dormiveglia, sogno notturno e diurno, visione.

A seguire, prende la parola il vicepresidente ARPA Alessandro Defilippi. Nel suo intervento “La bocca di Pantagruel e l’anima del mondo – identità, liquidità, ambiente” ricorda il concetto ideato dal critico letterario russo Michail Bachtin nei suoi studi su Rabelais, ovvero quello del “corpo grottesco”, “figura di interscambio sregolato biologico e sociale” e la trasposizione dello scrittore francese dei conflitti e dell’impasse politico e sociale nella fisiologia umana.

Accenna, poi (il tempo a disposizione scarseggia) al principio di indeterminazione di Heisenberg, concetto cardine della meccanica quantistica, al concetto di “ordine implicito” di Bohm, e constata la non-differenziazione fra psiche e materia nelle relazioni quantistiche, inoltre come la sincronicità junghiana accada all’interno di un contesto acausale. Impossibile non pensare alla congiunzione Jung–Pauli e, in particolare, alla lettera 64 del carteggio (“Jung e Paoli. Il carteggio originale: l’incontro tra psiche e materia”) nella quale lo psichiatra e studioso svizzero afferma: .

Poco più avanti, Jung ravvisa nella sincronicità un “ulteriore punto di contatto fra fisica e psicologia”. Interviene, infine, il vicepresidente AIPA Antonio de Rienzo, che ci diletta raccontandoci – rammentando l’incontro di Jung “magico e incomprensibile” con il mago Filemone che curava “con simpatia” (“Libro rosso”, [I,139] cap. XXI) – un episodio significativo di empatia e di pensiero sognante: il paziente racconta di essersi identificato, in sogno, con un branco di pesci, tutti uguali, blu-argentei; l’analista immagina una tartaruga blu sorridente. I pesci si arrestano, non sanno dove andare. Simbolicamente, essi rinunciano all’atto sacrificale, al principium individuationis (principio di individuazione), rimanendo, pur identici, molteplici.


Concludendo: le potenze sommerse che guardano se stesse non-essere troveranno il varco attraverso cui rivelarsi o lo spazio-ambiente psichico si modificherà prima del loro apparire? Non ci è dato saperlo. Se pensiamo allo spazio oscuro dello spettatore nella sala cinematografica, ci pare ormai limitato.

A noi, soggetti riprodotti tecnologicamente, non basta più solo guardare, identificarci con questo o quel personaggio, oppure osservare Kubrick osservarsi (come ci fosse uno schermo nello schermo) attraverso la sua immagine perfettamente ambigua, o smaniare al cospetto della sua scenografia claustrofobica e di quel suo sguardo obliquo che fa percepire un ghigno critico o, ancora, rifletterci negli specchi di Bergman e nei suoi fantasmi, o anche considerare con timore perturbato e forse con perverso compiacimento gli automi di Syberberg, abbiamo bisogno di interagire fisicamente con quei sosia ed altri, questi ed altri specchi, quei fantasmi ed altri, questi ed altri automi, forse fino ad incorporarli, o magari liberandoli una volta per tutte, dalle scatole, dalle stanze – anche e soprattutto psichiche – , dai libri, dalle pellicole.

Un’irruzione totale, assoluta, del cinema e della letteratura nel reale comunemente inteso? Un nuovo soggetto iperreale e ipersincronico? Un violento desiderio di manipolazione del reale? Una follia di massa? O, invece, l’annullamento del reale e del soggetto e l’interazione fra personaggi cinematografici e letterari? Nell’attesa, a ognuno il proprio sosia.


Ricordiamo che la mostra dedicata a Kubrick, vent’anni dopo la sua scomparsa, è approdata a Londra, presso il Design Museum. E’ possibile visitare dieci stanze tematiche, ognuna dedicata a un’opera di Kubrick, mentre contemporaneamente, su schermi ad alta risoluzione, sono proiettate le scene più conosciute del regista, oltre che scene inedite. Accessibile fino al 17 Settembre.