Jojo Rabbit | Quando e quanto ridere del nazismo

Foto dell'autore

Di Redazione Metropolitan

Film d’apertura del Torino Film Festival, Jojo Rabbit, diretto e interpretato da Taika Waititi, lascia il pubblico in sala sconvolto e con formicolii allo stomaco difficili da digerire e interpretare.

Fresco della nomination ai Golden Globe per Roman Griffin Davis, candidato a miglior protagonista di un film commedia, Waititi torna ancora una volta a sorprendere e a giocare con la macchina da presa. Questa volta, con Jojo Rabbit, riesce a trasportare sul grande schermo un tema ingombrante e –purtroppo– quanto mai nostalgico, di questi tempi: il nazismo.

In sala qualcuno sorride. Qualcuno strabuzza gli occhi, altri singhiozzano silenziosamente.

Il regista accetta, senza timore, la sfida di ironizzare su Adolf Hitler e il Terzo Reich, confrontandosi con le tantissime pellicole che hanno cercato di esorcizzare uno dei momenti più bui della storia mondiale.

Jojo rabbit PhotoCredit: dal web
Jojo rabbit PhotoCredit: dal web

Predecessori del film e trama di Jojo Rabbit

Charlie Chaplin, Quentin Tarantino, David Wendt (Con Lui è tornato), sono validi antenati che , però, non hanno nessun grado di parentela con il Jojo Rabbit di Waititi.

Il film è suddiviso, se così vogliamo, in due parti. La prima, interamente incentrata sulle avventure campestri della Jungvolk (organizzazione giovanile fondata dal partito nazista). Con lo spettro di Wes Anderson che aleggia sopra questo campo ‘scout’ nazista, facciamo la conoscenza del nostro protagonista della storia, Jojo Betzler (detto Jojo Rabbit) interpretato da un sorprendente Roman Griffin Davis (presente all’anteprima del Torino Film Festival).

Jojo è un bambino di dieci anni e, come tutti i bambini nati e cresciuti sotto il terzo reich, è un fanatico del nazismo. A chiudere il cerchio di questa, già di per sé assurda, storia, l’innesto della figura fisicamente e significativamente ingombrante di Adolf Hitler come suo amico immaginario, nel truccatissimo volto di Taika Waititi.

La seconda parte, più intima e ‘viscerale’ (sono quasi tutte riprese in interno, o, per lo meno, è all’interno della casa materna che avviene la maggior parte degli intrecci narrativi) riguarda l’incontro con una ragazza ebra, Elsa (Thomasin McKenzie), la conversione di Jojo e il lento allontanamento  dal mondo del nazismo.

Waititi abitua il pubblico alla risata, per poi sferrare dei pungi ben assestati proprio all’altezza dello stomaco, cogliendo lo spettatore di sorpresa e lasciandolo in uno stato di apnea per alcuni secondi. Si ride. Si ride tanto, si ride tantissimo, e poi, BOOM, ecco che Waititi non perdona.

 È come se il regista volesse porre sugli assi di una stessa bilancia immaginaria le precedenti risate, di pancia e gratuite, restituendole indietro, una ad una, con singhiozzi e nodi alla gola.

Mentre noi prendiamo in giro Adolf Hitler e le sue movenze quasi effeminate, Waititi, con grande genialità ci invita a riflettere, e a non dare per scontato un fenomeno come il nazismo. Catapultandoci nel sentimento potentissimo della vergogna, Jojo Rabbit centra l’obiettivo.

Seguici su MMI