La storia di Vittorio Emanuele di Savoia e il rapporto con il figlio

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Di Redazione Metropolitan

Nessuno ricorda mai la storia presente, il passato prossimo, molto prossimo, del signor Vittorio Emanuele di Savoia, uomo d’affari. In questa veste – che poi è l’unica che ha davvero rivestito – Vittorio Emanuele in Italia è già rientrato negli anni sessanta. Anzi, non ne è mai uscito. Fa parte a pieno titolo della storia recente del paese: quella storia italiana, invisibile e sotterranea, che ha a che fare con lobby riservate, logge segrete, aristocrazie occulte impegnate in affari internazionali, spesso sul crinale tra legalità e illegalità. Eccola, dunque, la vera storia di Vittorio Emanuele di Savoia, erede al trono d’Italia, piduista e trafficante d’armi.

Fu erede bambino di una casata senza regno, poi playboy non brillantissimo e amante di fuoriserie (con attitudine a uscire di strada), poi ancora imputato d’omicidio con ai polsi le manette della Gendarmerie. “Questa grande dinastia, che per secoli ha regnato su Chambery e dintorni…” – come ironizzava Carlo Emilio Gadda – ha trovato seppur tardivamente un uomo capace di compiere grandi imprese (finanziarie), di andare finalmente oltre i confini, di renderli inesistenti anzi, con l’aiuto di qualche società offshore. Da giovane, ebbe una carriera scolastica un po’ difficile. Ma si preparò con scrupolo a divenire cultore dello champagne e dei vini pregiati. Allora gli amici lo chiamavano Toto la Manivelle (potremmo tradurre Vittorino il Volantino) per via della sua eccezionale capacità a perdere il controllo del volante e a uscire di strada, con gran danno per le carrozzerie delle sue belle auto. Divenne presto cittadino del mondo. Prese dunque a collezionare conchiglie.

Ma, poiché non gli bastavano né le fuoriserie (per le avventure di terra), né le conchiglie (per quelle di mare), prese anche il brevetto di pilota (per le avventure di cielo) e acquistò un biplano con una testa di tigre disegnata sulla fusoliera. Infine divenne uomo d’affari: “per ricostruire il patrimonio di famiglia”. La sua professione può essere definita in molti modi aulici. Ma per capirsi meglio basterà la definizione di mediatore d’affari, piazzista di lusso, ponte nobile tra grandi imprese occidentali e satrapie orientali, sempre all’ombra di qualche strana consorteria politico-affaristica. I quarti di nobiltà di Vittorio Emanuele costituiscono il valore aggiunto, sono la griffe che garantisce, se non una particolare abilità manageriale, almeno l’accesso ai personaggi utili, alle lobby giuste.

Così negli anni settanta il signor Savoia fu preso sotto l’ala dal conte Corrado Agusta, l’ex marito di Francesca Vacca Graffagni, allora padrone di una fabbrica d’elicotteri e mercante internazionale d’armi. Agusta, in verità, era conte per modo di dire: non per antico lignaggio, ma per tardivo decreto di un Savoia ormai prossimo all’esilio portoghese. Al conte Corrado era utile avere vicino un nobile vero, un principe di casa reale, amico o parente o comunque ben introdotto nelle dinastie grandi acquirenti dei suoi prodotti. Lo scià di Persia, per esempio: Vittorio Emanuele era suo amico di famiglia, e in più all’epoca lo scià Reza Pahlevi corteggiava Gabriella di Savoia. Insomma, Vittorio Emanuele riuscì a piazzare allo scià una quantità di elicotteri e armi, guadagnandosi, come ogni piazzista, le sue brave provvigioni.

Le armi giravano il mondo: Somalia, Congo, Zaire… A vederci chiaro provò anche un giovane giudice di Trento, Carlo Palermo, che aveva messo gli occhi su un doppio traffico: armi dall’Occidente verso Oriente, droga in direzione opposta. Anche Palermo fu bloccato, e in malo modo. Probabilmente proprio perché quei traffici non si possono fare senza il consenso di poteri molto forti, che per certi lavori sporchi usano i servizi segreti e che comunque non gradiscono che si metta il naso nei loro affari, né che si portino alla luce operazioni in cui alte ragioni di Stato si mischiano spesso a bassissime ragioni di soldi. Comunque Vittorio Emanuele era attorniato e ben sostenuto da una compagnia di personaggi eccellenti, come si conviene nei commerci internazionali d’armi: faccendieri, politici, militari, uomini dell’intelligence.

Tra gli altri, c’erano il colonnello Massimo Pugliese, fedelissimo di casa Savoia, già responsabile del centro di controspionaggio di Cagliari; il generale Giuseppe Santovito detto Bourbon per via dei suoi gusti alcolici, direttore nientemeno che del SISMI, il servizio segreto militare; l’ex attore Rossano Brazzi, massone, approdato dal cinema all’entourage di un altro attore che aveva cambiato mestiere, Ronald Reagan. Una bella compagnia di giro, variopinta ma potente. I servizi segreti vegliavano sugli affari. Barbe finte italiane, ma anche i loro padrini della CIA e dalla NSA, le due massime agenzie spionistiche americane. Del resto, l’amministratore dei beni di casa Savoia, l’avvocato Carlo D’Amelio, era presidente del CMC, una filiazione della Permindex, che secondo il giudice Palermo era una «creatura della CIA, istituita per coprire i finanziamenti dei servizi segreti americani CIA-FBI in Italia per attività anticomuniste».

Già in passato Vittorio Emanuele si era avvicinato a un politico italiano: Bettino Craxi. Era la fine degli anni settanta, e lo scenario era quello dell’isola di Cavallo, in Corsica. Lì passava una parte delle sue lunghe vacanze Silvano Larini, l’uomo che aveva fatto incontrare Craxi e Berlusconi e che in seguito sarà accusato di essere il fattorino delle tangenti del segretario socialista. A Cavallo, anzi Cavallò, territorio francese, andava in vacanza anche Vittorio Emanuele. Isola esclusiva, lembo di paradiso, pochi gli ospiti ammessi. Naturale incontrarsi, parlarsi. Larini, bon vivant, all’inizio frequentava per lo più Marina Doria, la consorte del principe, ma da cosa nasce cosa. Silvano e Vittorio si conobbero e decisero di fare business insieme: lanciare l’isola come luogo esclusivo di vacanze. Ancora una volta, Vittorio Emanuele e il suo blasone funzionano come spot pubblicitario per attirare una selezionata folla di nuovi ricchi e consumati tangentomani a caccia di patenti per entrare nel jet set.

Peccato che un colpo di fucile, nell’agosto 1987, rovini tutto: durante un litigio ad alto tasso alcolico con il playboy Nicky Pende, a Vittorio Emanuele scappò uno sparo nella notte. A farne le spese fu un giovane velista tedesco, Dick Hammer, che dormiva tranquillo nella sua barca. Per quello sparo, il principe fu processato in Francia, ma – tutto il mondo è paese – alla fine ne uscì assolto, con la sola condanna a sei mesi (con la condizionale) per porto abusivo d’arma. La brutta vicende si concluse con qualche protesta dell’opinione pubblica e l’indignazione dei parenti del ragazzo morto dopo una lunga agonia. L’affare di Cavallo ne risentì un po’, ma intanto Vittorio Emanuele era entrato, grazie a Larini, nel nuovo giro. Affari e politica, come sempre, ma questa volta all’ombra di Craxi.

Vittorio Emanuele di Savoia condannato a 2 anni (con pena sospesa) per calunnia. “Io non ho mai cercato vendetta”, dice ora, commossa, Birgit Hamer, “ma ho vissuto 39 anni della mia vita per ristabilire la verità sulla morte di mio fratello Dirk, ucciso a 19 anni da una fucilata sparata nella notte il 18 agosto 1978”. Dirk fu raggiunto dai colpi mentre dormiva in una barca ancorata all’Isola di Cavallo, in Corsica, e morì dopo quattro mesi di agonia. Vittorio Emanuele fu processato nel 1991 in Francia per omicidio e assolto.

“A me è restata solo l’arma della parola per raccontare i fatti”, dice Birgit, “e li ho raccontati nel libro Delitto senza castigo pubblicato coraggiosamente da Francesco Aliberti nel 2011, con una prefazione di Beatrice Borromeo”. Dopo il libro, è arrivata all’autrice la querela per diffamazione. “Ho risposto con una denuncia per calunnia: Vittorio Emanuele mi ha falsamente accusato del reato di diffamazione, pur sapendomi innocente. Credevo che il processo sarebbe durato anni e finito con la prescrizione. Invece il rito abbreviato è stato rapido. Non credevo alle mie orecchie quando ho sentito la giudice di Roma, Simonetta D’Alessandro, pronunciare le parole: ‘Nel nome del popolo italiano, condanno…’. Sono scoppiata a piangere. La giustizia è sempre rappresentata da una figura femminile e questa volta una giudice donna ha rapidamente dato davvero giustizia, in nome del popolo italiano. Io avevo reagito perché con la denuncia per diffamazione mi volevano togliere l’unico diritto che mi era rimasto dopo l’assoluzione di Vittorio Emanuele dall’accusa di omicidio: il diritto di raccontare la verità”.

Vittorio Emanuele di Savoia e Marina Doria sono i genitori di Emanuele Filiberto di Savoia, il loro primo e unico figlio nato nel 1972 a un anno dalle loro nozze. La storia familiare di Vittorio Emanuele è per ovvie ragioni più nota di quella di Marina, che da giovane si è affermata soprattutto come sciatrice nautica, lo sport che praticava a livello agonistico negli anni Cinquanta e che le ha permesso di arricchire il suo palmarès di ben 4 ori mondiali. Figlia di René Italo Ricolfi Doria, industriale elvetico di origine italiana, e di Iris Amalia Benvenuti, Marina vive da sempre in Svizzera, anche se la sua famiglia è originaria del genovese. In carriera ha conquistato 23 titoli svizzeri, 12 europei e – come si è detto – 4 mondiali, in quest’ultimo caso da outsider assoluta: nessuna donna svizzera, prima di lei, era riuscita a tagliare questo traguardo.