
Fabio e Damiano D’Innocenzo firmano un’opera prima incredibile, che come ogni esordio trascina con sé il massimo dell’ambizione. È una storia di margini ed emarginati ma si commetterebbe un errore a pensare che sia cinema-verità. Non è un film che improvvisa o che coglie la realtà nel divenire. Basta leggerne i titoli di testa, furbescamente posti all’inizio, come a dire: sì, questo è un film d’autore e gli autori sono molti. A partire da Marco Spoletini al montaggio, che non è esattamente il primo professionista che un esordiente sprovveduto potrebbe permettersi.
I Fratelli D’Innocenzo sono stati definiti (e si sono definiti loro stessi) un prolungamento del cinema di Pasolini. Con le dovute precisazioni, Pasolini non potrà mai avere eredi nel cinema, poiché la sua era e rimane una poetica estremamente personale, però in questo caso ci sono degli elementi di similitudine. Il più evidente è il desiderio di sacralizzare gli infimi, riuscendo ad abbellire le brutture di una periferia abbandonata.
La terra dell’abbastanza di Manolo e Mirko

Siamo a Roma, ai margini della città. Tutto è violento e privo di grazia: le parole, il linguaggio del corpo, le azioni quotidiane. Manolo (Andrea Carpenzano) e Mirko (Matteo Olivetti), amici da una vita, si ritrovano come sempre insieme fino all’alba, anche nei giorni di scuola. All’improvviso un incidente cambia le loro vite, facendo emergere pensieri, bisogni e questioni con cui prima non si erano mai dovuti misurare.
L’incidente li porta infatti a entrare in un giro criminale locale gestito da Angelo (Luca Zingaretti). Poveri, ignoranti e senza prospettive, si lasciano abbagliare dal denaro facile e dalle motivazioni sbagliate. La rapidità con cui il senso di colpa svanisce, lasciando posto a un’incredibile indifferenza è forse il vero punto di rottura tra i protagonisti e il pubblico. Da qui in poi non si può fare altro che osservarli dall’esterno, mentre viaggiano a velocità verso la loro inevitabile autodistruzione.

La terra dell’abbastanza non intende comunque creare empatia o compassione. Lo scopo, al contrario, è proprio quello di mostrare con sincerità disarmante e brutale, priva di filtri, una parte dell’Italia che esiste, anche quando rifiutiamo di vederla. Un terra dove abbastanza è il massimo a cui aspirare, in cui lo Stato e le istituzioni falliscono, anzi non riescono proprio a entrare. In un certo senso i fratelli D’Innocenzo si inseriscono in un filone già esistente, il cinema delle banlieues e dei margini, ma reinventano il realismo del nostro cinema. Raccontano una realtà bestiale e ormai perduta con un’eleganza stilistica sopraffina.
Articolo di Valeria Verbaro
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