Road to Flop: “La Vita è Bella”, gli americani ad Auschwitz

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Di Redazione Metropolitan

La Vita è Bella” su “Road to Flop“? Si aprano i cancelli dell’inferno. Uno dei film più amati degli ultimi venticinque anni può essere davvero annoverato all’interno di questa nostra dissacrante rubrica? Forse, in questa pellicola, può essere riassunta l’intera carriera di Benigni. La brillantezza della sua comicità guascona e la deriva retorico-politica del nuovo Millennio.

La trama

La storia, letteralmente divisa in due parti, narra di Guido Orefice (Roberto Benigni), un ebreo che si trova ad affrontare la difficile situazione delle leggi razziali durante gli ultimi anni del Fascismo. Innamoratosi della maestra Dora (Nicoletta Braschi), rampolla di una famiglia appartenente all’alta borghesia, riuscirà a conquistarla e a metter su famiglia con lei.

Tuttavia, quando nel 1944, l’Italia si trova spaccata in due, nel vivo delle persecuzioni adoperate dalle SS sul territorio repubblichino, Guido, suo zio Eliseo e il figlio Giosuè sono deportati ad Auschwitz, con Dora che, pur di non rimanere lontana dalla sua famiglia, pretende di essere imprigionata anche lei. Giunti nel Lager, pur di nascondere al piccolo Giosuè gli orrori cui stanno andando in contro, Guido gli racconta che si tratta di un gioco, con premio un carrarmato. Pertanto, quando alla fine, gli Americani giungeranno sui loro Sherman, Giosuè si convincerà che fosse tutto vero, sebbene sia ignaro della fucilazione del padre adoperata dalle SS.

La Vita è Bella
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“Gli Oscar si vincono con gli Americani liberatori”

Partiamo subito dall’invenzione più discussa di Benigni: gli Statunitensi che liberano Auschwitz. Com’è ben noto, dopo la conferenza di Jalta, le tre forze alleate contro i Nazisti – Unione Sovietica, Regno Unito e Stati Uniti – si occuparono di smantellare le conquiste hitleriane sui due fronti principali. Gli statunitensi, gli inglesi e i francesi di DeGaulle risalirono dal Sud, mentre i Russi riconquistarono le terre che avevano perso durante l’estenuante operazione Barbarossa. Auschwitz, come ci insegna la storia, fu liberata dai Sovietici, laddove, invece, gli Americani si occuparono di liberare i Lager del Sud della Germania e della RSI.

Questa scelta narrativa di portare gli Americani ad Auschwitz fu alla base di diverse critiche. Su tutti, Bernardo Bertolucci affermò come “i Russi liberarono Auschwitz, ma gli Americani consegnano gli Oscar“. La poca sincerità imputata al film di Benigni partiva proprio da qui. Consci che “La Vita è Bella” avrebbe ottenuto un discreto riscontro anche al di fuori dei nostri confini, gli autori optarono per concedere agli Americani la palma di assoluti liberatori.

Una parziale smentita

Lo stesso Benigni, negli anni, si è ritrovato più volte a difendere questa scelta, affermando che il Lager non fosse specificatamente quello polacco, bensì uno simbolico e inventato. Tuttavia, che si tratti di Auschwitz è sin troppo evidente, e c’è poco da discutere. Pertanto, con questa prima “paraculata” (ci si passi il termine), andiamo ad analizzare le altre peculiarità che hanno tramutato questo film in un cumulo di retorica.

La Vita è Bella
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Benigni e la disfida a Zavattini

Il piccolo Giosuè è forse l’emblema di questa forte carica retorica. Un bambino farà sempre breccia nel cuore degli spettatori, e l’operazione di Benigni poggiava su questo postulato. Riavvolgendo il nastro del nostro cinema, pensiamo alle sceneggiature di Zavattini per Vittorio De Sica, in particolare a “Ladri di Biciclette“. Il protagonista è un uomo che tenta di sopravvivere nei difficili anni del Dopoguerra e, nel finale, delude suo figlio, il quale, nonostante tutti i guai passati, non aveva smesso di credere in lui.

Nella poetica di Zavattini, il racconto di un uomo e della sua prole immersi nel difficile contemporaneo, aveva lo scopo di mostrarci anche l’orgoglio di un padre, decaduto a seguito di tante, troppe porte in faccia. Essere considerato come un eroe dal proprio figlio, a scapito di tutto, era più importante di ogni cosa, anche quando spendeva i suoi pochi spiccioli per mangiare in una locanda. Ecco, Benigni ha preso a piene mani da Zavattini, portando sul proprio copione un’idea non dissimile. Tuttavia, la costruzione appare molto più banale, più intuitiva. Non c’è nessun conflitto che tormenta il padre. Non ha paura di morire pur di salvare il proprio figlio, laddove, in “Ladri di Biciclette”, il protagonista finiva per macchiarsi dello stesso reato da cui era scaturita la sua sequenza di problemi.

La Vita è Bella, in teoria

Il personaggio di Guido, dal simpatico guascone tipico del Benigni comico, diviene una macchietta. Nella prima parte è un genio della truffa bonaria – cappelli rubati, finta divulgazione del culto della razza ariana -, mentre, nella seconda parte, questo suo continuo manipolare la realtà per nascondere al figlio le atrocità della Guerra, diviene a tratti stucchevole. Semplicemente perché si perde tutta la sua caratterizzazione. Solo in una scena la si rivede: l’incontro con il dottore amante degli indovinelli, che, parlando di un enigma su cui si arrovella da tempo, gli fa capire come gli sia impossibile salvarli dal loro destino.

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La Vita è Bella, e bisogna documentarlo

La sua caratterizzazione si perde in favore di quello che è il peggior difetto della seconda parte del film: l’eccessiva esposizione. Nella prima parte, l’autore ci mostra in modo squisitamente contorto, la situazione presente in Italia dopo l’emanazione delle leggi razziali (1937). Tale descrizione è inappuntabile dal punto di vista drammaturgico; è misurata, ma perfettamente esposta, e non esagera nel descriverci con retorica il modo in cui noi spettatori dobbiamo pensarla o sul perché dovremmo ammettere che sia tutto un errore. Nella seconda parte, invece, tutto diventa molto più didascalico e poco narrativo.

La seconda parte diviene una sorta di documentario sugli orrori dei Lager. E, per carità, non sarebbe neppure sbagliato. Eppure, tra la scena dell’arrivo ad Auschwitz e la fine, solo due sequenze ci mostrano un prosieguo della storia: il succitato dialogo con il dottore e la tentata ricerca di Dora. Tutto il resto è un insieme di vignette su quanto atroci fossero i campi di sterminio, senza che vi sia una vera storia dietro. In buona sostanza, dopo la scena del Guido falso interprete tedesco, ci si aspetta di sapere solo come finisca. Non sussistono più snodi narrativi, ma solo una continua visione documentaristica.

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I Nazisti cattivi – Ovvero come sparare sulla Croce Rossa

Accusare i Nazisti è giusto ed è sbagliato al contempo. “La Vita è Bella” è un racconto a tesi, cioè si sgrava dalla necessità di inserire un conflitto o un contraddittorio. L’autore definisce sin da subito come i Nazisti siano “pazzi” (scena degli incudini) o “cattivi, cattivi che urlano”. E tutto ciò, ci ricollega alla frase di Bertolucci secondo cui “gli Americani consegnano gli Oscar”.

E’ da decenni, ormai, che nelle scuole nostrane si insegna a discernere i soldati Nazisti dal loro leader. I soldati delle SS che erano costretti a uccidere per guadagnarsi da vivere pur di non esser definiti traditori della patria; i dottori che erano costretti a della tremenda chirurgia sperimentale su donne e bambini. Diverse lettere di soldati, in qualche modo, ci hanno mostrato un’altra faccia della medaglia: uomini impiegati in delle atrocità utili a soddisfare la follia di un dittatore ormai dilaniato dalle droghe di Morrell. Nulla di tutto ciò, però, è presente in “La Vita è Bella”: il Nazismo diventa lo specchio del male assoluto e tutti i suoi adepti ne sono coinvolti, nessuno escluso. Loro sono i cattivi e Guido, Giosuè e compagnia, sono i buoni.

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La coppia delle critiche

Un film, pertanto, che rappresenta appieno la sintesi della carriera di Roberto Benigni: un comico brillante, guascone e mai banale, la cui deriva filosofica lo ha portato a ricevere innumerevoli critiche negli ultimi anni. Una persona che si è confusa con il personaggio del politologo e sociologo burlone, forse nato proprio in “La Vita è Bella”.

Infine, una menzione di (dis)onore per Nicoletta Braschi. Difficile immaginarla lontana dai film di Benigni, e non per il loro matrimonio ormai ampiamente consolidato, ma per le sue scarse – terribili – doti recitative. Se ne “Il Mostro” aveva rivelato tutte le sue incapacità, soprattutto con il suo timbro vocale incerto, qui si mostra meno fuori luogo ma comunque spaesata. I suoi sguardi, i suoi sorrisi forzati, i suoi movimenti, la sua recitazione, concorrono insieme per donarci una delle attrici meno preparate della nostra storia.

MANUEL DI MAGGIO

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