L’Arabia Saudita e la diplomazia dello sport

Foto dell'autore

Di Lorenzo Spizzirri

E’ innegabile che un evento sportivo, soprattutto se di alto livello, frutti – a chi lo ospita – un grande ritorno in termini di immagine, facendo passare in secondo piano le eventuali voci critiche. Ed è altrettanto innegabile che numerose dittature e paesi autoritari, nel corso della storia, abbiano investito denaro ed energie per ospitare i maggiori eventi sportivi del pianeta. Il mondiale 2022 in Qatar è solo l’ultimo in ordine di tempo, ma l’emirato del Golfo si trova adesso di fronte un avversario potenzialmente invincibile quanto a volontà di riuscita e disponibilità economica: l’Arabia Saudita.

L’Arabia Saudita ha grandi ambizioni in ambito sportivo. Infatti, non è un mistero che abbia messo gli occhi sul mondiale di calcio del 2030, il quale verrà assegnato l’anno prossimo dalla FIFA. Per riuscire a raggiungere l’agognato obiettivo, la monarchia del Golfo ha messo in campo una strategia di ampio respiro, cercando di convincere altri paesi a condividere la candidatura.  Secondo quanto rivelato da Politico, l’Arabia Saudita starebbe tentando di convincere l’Egitto e la Grecia a presentare una candidatura comune per i mondiali, offrendo in cambio di sostenere i costi degli stadi negli altri due paesi partner. In cambio, i tre quarti delle partite, oltre alla finale, saranno disputati nella penisola arabica.

L’idea di associarsi in più paesi per sostenere i costi di un evento come un mondiale di calcio non è nuova. L’elemento di novità, in questo caso, sarebbe che i tre paesi associati appartengono a tre continenti diversi. L’accusa, non troppo velata contro l’Arabia Saudita, sarebbe quella di volersi comprare il Mondiale creando una coalizione transcontinentale, in modo da trarre vantaggio dal sistema di voto usato per l’assegnazione del torneo. Infatti, se questa avesse presentato da sola la propria candidatura, sarebbe stato altamente improbabile riuscire a vincere a soli otto anni dal mondiale in Qatar, per via di un criterio di bilanciamento su basi geografiche della competizione.

Invece, qualora l’accordo sottotraccia si realizzasse, la proposta dell’Arabia Saudita avrebbe serie chance di ottenere il Mondiale. Infatti, i membri africani della FIFA potrebbero appoggiare il progetto sulla base della presenza dell’Egitto (nonché dei corposi investimenti sauditi nel continente), e se i paesi asiatici seguissero il medesimo schema, e qualche membro europeo votasse per la Grecia, il gioco sarebbe fatto. 

La rivelazione di Politico ha scatenato una sorta di terremoto parlamentare in Grecia, dove è ancora vivido il ricordo delle Olimpiadi di Atene del 2004, che lasciarono alle loro spalle costi esorbitanti (9 miliardi di euro), numerosi impianti abbandonati dopo la fine dei giochi, e una depressione economica da cui solo ora il paese sta faticosamente uscendo. Syriza, il principale partito di opposizione, ha provocatoriamente chiesto al Primo Ministro “Perché la Grecia stia regalando il proprio nome, che è sinonimo di democrazia e libertà, all’Arabia Saudita”. Nonostante le smentite ufficiali da parte del governo greco, Politico ha confermato l’esistenza dell’accordo sulla copertura dei costi da parte della monarchia del Golfo.

Ma l’assegnazione della Coppa del mondo del 2030 sarebbe il punto di arrivo di un cammino intrapreso da anni dall’Arabia Saudita nel mondo del calcio. Nel 2018, infatti, venne firmato l’accordo con la nostra Lega Calcio per disputare a Riyadh tre finali della Supercoppa Italiana: le finali, a causa del blocco dovuto alla pandemia, furono disputate con due anni di ritardo, ma la monarchia Saudita è rimasta comunque soddisfatta dal suo investimento, talmente soddisfatta da aver proposto un nuovo contratto alla Lega Calcio da 140 milioni di euro per rinnovare l’accordo. Il rinnovo prevederebbe di far disputare in Arabia Saudita quattro finali su sei della Supercoppa, oltre alle semifinali. I club di Serie A hanno già storto il naso di fronte a questa eventualità, dato il fitto campionato che si prospetta per loro a causa degli impegni di campionato e delle coppe europee, ma di fronte al corposo cachet messo sul piatto ogni incertezza è destinata a svanire.

I club italiani sarebbero comunque in buona compagnia: anche la Liga spagnola ha infatti firmato nel 2019 un accordo simile a quello della Lega Calcio per portare nella penisola la Supercopa de España. Inoltre, occorre citare l’ingaggio di Cristiano Ronaldo da parte della squadra saudita Al-Nassr, per il quale il club ha garantito al calciatore un ingaggio di 200 milioni di euro annui fino al 2025, e l’ingaggio di Lionel Messi, fresco campione del mondo in Qatar, come testimonial e ambasciatore del turismo in Arabia Saudita. La presenza quasi contemporanea dei due giocatori più forti del pianeta, oltre all’ospitalità dedicata alle coppe europee, hanno aumentato a dismisura la visibilità della penisola arabica, e costituiscono – più o meno direttamente – un forte assist al progetto del Mondiale del 2030.

Il circuito di F1 di Jedda, Arabia Saudita (foto via skysport.it)

Ma non è solo il calcio a passare dalla penisola: infatti, nel 2022 si è corso anche il primo GP di Formula 1 a Jeddah, segnando l’inizio di un accordo della durata di quindici anni tra l’Arabia Saudita e Liberty Media Corporation, proprietaria della Formula 1; oppure, per rimanere in ambito motoristico, a gennaio si è corsa in Arabia Saudita la quarta edizione della Dakar, il rally africano più storico ed evocativo per l’immaginario collettivo. E infine, ma non meno importante, occorre citare la LIV Golf League, definita a ragione la nuova Superlega del Golf mondiale, che partendo da Riyadh toccherà anche Stati Uniti, Australia e Singapore. Come ha fatto l’Arabia Saudita a mettere in piedi un torneo del genere dal nulla? Molto semplicemente, pagando. A suon di milioni, infatti, è riuscita a strappare al PGA Tour (la più forte e ricca organizzazione golfistica mondiale) quasi tutti i suoi campioni, eccezion fatta per Tiger Woods, che ha rifiutato l’offerta.

La domanda che sorge, a questo punto, è: qual è il motivo di questi colossali investimenti in eventi sportivi? A cosa punta Riyadh? Si è parlato – sull’onda del Mondiale disputatosi in Qatar – di sportwashing, ovvero di cercare di nascondere tutte le proprie carenze dal punto di vista dei diritti umani sotto una spessa coltre di eventi sportivi di grande richiamo mondiale, in modo da far passare in secondo piano storie come la repressione del dissenso politico e della comunità LGBTQ+, l’uccisione del giornalista di origine saudita del Washington Post Jamal Khashoggi, la guerra in Yemen e via elencando. Tutto corretto, ma non basta.

L’obiettivo autentico dell’Arabia Saudita è costruire un paese completamente nuovo, dal punto di vista economico, seguendo il piano lanciato dal principe ereditario Mohammed bin Salman nel 2015 e noto come Saudi Vision 2030. In questo piano si può veder come i pilastri su cui dovrà poggiarsi la nuova nazione saranno l’abbandono graduale dei combustibili fossili, la diversificazione dell’economia ed una maggiore attrattività turistica, soprattutto di un turismo di fascia medio-alta. A finanziare tutto questo è il Fondo sovrano statale noto come PIF, il quale può contare su una potenza di fuoco finanziaria praticamente illimitata. Attraverso questi eventi, la monarchia del Golfo stringe alleanze, conclude accordi, si accredita con la comunità internazionale per diventare un protagonista del mondo che verrà, una volta che non potrà più contare sul petrolio.

 La nuova Arabia Saudita, nei piani di MBS (acronimo di Mohammed bin Salman), dovrà diventare il centro del pianeta, il nuovo ombelico del mondo. E lo sport è il mezzo più rapido, da sempre, per cercare di ripulire un’immagine irrimediabilmente compromessa.