Domenica 35 milioni di argentini sono attesi alle urne per le elezioni generali, chiamati a scegliere i nuovi presidente e vicepresidente, rinnovare la carica di 130 deputati e 24 senatori, oltre a nominare 43 rappresentanti al Parlasur, l’organo legislativo del Mercosur. Un appuntamento elettorale cruciale ma carico di incognite, che potrebbe essere all’insegna delle sorprese dopo il risultato delle primarie dello scorso 13 agosto. Se tutte, o quasi, le attenzioni dei media sono focalizzate sul candidato alla presidenza Javier Milei, uno dei cinque più accreditati, quelle dei cittadini e delle istituzioni finanziarie seguiranno con apprensione l’esito decisivo per far fronte a una grave crisi inflazionistica, in cima alle loro preoccupazioni, con un tasso che supera 124% su base annua. Sono cinque i candidati presidenziali che si sfideranno nella chiamata alle urne.
L’ultra liberista Javier Milei, candidato di estrema destra più votato alle ultime primarie del mese di agosto, si colloca in buona posizione per vincere al primo turno o altrimenti andare al ballottaggio. Candidato agli antipodi del pensiero dominante in molti paesi della sinistra del Continente, Milei, anti sistema, ha ottenuto un grande sostegno da parte dei settori più vulnerabili del paese, ma anche dagli elettori di classe media e alta. La sua promessa è di tagliare la spesa pubblica, riformare lo Stato e privatizzare. Ma questa politica radicale non sembra spaventare i cittadini argentini, stanchi oramai di convivere con un’inflazione galoppante che frustra il futuro di tutti. Miliei, che non ha intenzione di negoziare con la Cina, con il presidente del Brasile, Lula da Silva, e con nessun comunista, si professa cattolico anti abortista, ma recentemente ha attaccato ferocemente Papa Francesco per la propensione, secondo il candidato, del pontefice a porsi a favore delle “dittature sanguinarie”.
Dall’altro lato c’è il fronte della destra tradizionale, legato all’ex presidente Mauricio Macri, guidato da Patricia Bullrich – Together for Change – suo ex ministro con un passato nella sinistra peronista, che basa il suo progetto nazionale sulla dura lotta alla criminalità, sulla riduzione della spesa pubblica e sul bimonetarismo come soluzione alla complicata situazione economica in cui si trova impantanata l’Argentina.In lizza c’è anche il partito progressista al potere, Unione per la Patria, capitanato da Sergio Massa. Ministro dell’Economia nel governo di Alberto Fernandez. Massa è accusato di essere responsabile dell’inflazione incontrollata e della crisi economica argentina, oltre a essere il volto dei peggiori risultati della sinistra alle elezioni. Tuttavia, Massa viene ancora considerato come la carta più forte a disposizione del governo per ottenere la continuità al potere.
Il quarto posto alle primarie è andato a Juan Schiaretti, candidato di ‘Hacemos por Nuestro Pais’, ex governatore della provincia di Cordoba con un passato nel gabinetto di Carlos Menem negli anni ’90. Già peronista, ma convertito a destra, Schiaretti avrà al suo fianco come candidato alla vicepresidenza, l’ex ministro dell’Interno e dei Trasporti, Florencio Randazzo, per cercare di “superare la frattura” tra kirchnerismo e anti-kirchnerismo.
L’Argentina tra crisi economica e politica
L’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del 22 ottobre in Argentina corrisponde con l’acuirsi di una crisi finanziaria ed economica dalle radici profonde. Ai problemi cronici del paese si somma la siccità dell’ultimo anno e, soprattutto, una crisi politica senza precedenti. Il tutto mentre il paese si trova a un passo dall’iperinflazione.
Da almeno vent’anni le crisi economiche non sono una notizia per l’Argentina. La sua recente storia economica è stata caratterizzata prima da default, prestiti del Fondo monetario internazionale e nazionalizzazioni. Poi da stagnazione economica e inflazione. Negli ultimi 25 anni il suo Pil pro capite è cresciuto meno che nei paesi confinanti.
Secondo il Fmi, a fine 2023 il Pil registrerà una contrazione del 2,5 per cento a causa dell’impatto della siccità e delle politiche macroeconomiche. Nel 2022 Buenos Aires ha esportato beni e servizi per 88 miliardi, di cui 40 di prodotti agricoli. I beni più esportati sono stati la soia (24,9 miliardi di dollari) e il mais (9,6 miliardi). Il grano è al quinto posto tra i prodotti più esportati (4,7 miliardi). Ma per il 2023 le stime del raccolto sono state riviste al ribasso, soprattutto per la soia. Per la Bolsa de Cereales de Buenos Aires le perdite nelle esportazioni agricole ammontano a circa 20 miliardi di dollari. Nel complesso, si stima una flessione delle esportazioni totali del 25 per cento. Nel frattempo, l’inflazione interannuale ha raggiunto il 124 per cento ad agosto (136 per cento a settembre secondo stime non ufficiali) e potrebbe arrivare al 170 per cento a fine anno. Pesa, inoltre, un debito di 400 miliardi di dollari, per due terzi in valuta straniera.
Eppure, l’attuale crisi è diversa dalle precedenti. Non è solamente l’ennesimo capitolo del disastro economico argentino. Perché stavolta alla crisi economica si affianca lo sfaldamento della politica. È una novità assoluta per un paese che, nonostante tutto, era abituato alla stabilità politica.