Le carceri italiane sono solo sequestro del tempo? Per adesso pare di sì

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Di Redazione Metropolitan

I progetti di edilizia per le carceri italiane partono tutti con i migliori propositi, ma puntualmente si perdono. Certo è che qualcosa deve cambiare.

Impianti mal funzionanti, tetti rotti, arredi fatiscenti, laboratori inesistenti, celle sottodimensionate: benvenuti nell’edilizia penitenziaria italiana, che sembra curarsi dei suoi detenuti, ma in realtà non ne ha la minima voglia, e non ha progetti in attivo per migliorare la situazione. I detenuti sembrano essere costretti in una gabbia, col solo scopo di passare il tempo che la pena singolarmente gli impone, senza vere opportunità di farne effettivamente qualcosa, di quel tempo.

Il problema parte dalle fondamenta, letteralmente, perché come si può avviare validi progetti di reintegrazione sociale, se le strutture sono allo sbaraglio? E il problema ancora maggiore è che questa situazione sembra sempre passare in secondo piano.

Tra le ultime iniziative che stanno tentando di decollare, c’è la notizia dell’ennesima istituzione della Commissione per l’architettura penitenziaria, che è il campo dell’edilizia che si occupa della costruzione e del mantenimento delle carceri. Ma siamo sicuri di farlo nel modo giusto? Non è che dovremmo prendere un po’ di spunto dagli svedesi, e magari buttarci qualche soldo in più?

Certo è che se la pena va scontata in un carcere fatiscente, sentirsi un animale in gabbia e niente più è facile, e porta l’individuo ad incattivirsi, ad abbattersi, a pensare che più di quel trattamento, a conti fatti, altro non gli spetta. Ma se le strutture fossero più a misura d’uomo, votate al rispetto della dignità del singolo (che è innegabile e sacra), i percorsi per reintrodursi all’interno della società civile servirebbero effettivamente a qualcosa. Più che altro perché due mesi, cinque anni o vent’anni passati a guardare il muro magari qualcuno se li merita, ma in generale possiamo dire che è un trattamento disumano e improduttivo, per tutti.

Dovrebbe essere sia nell’interesse del detenuto sia in quello dello Stato, creare un ambiente consono allo sviluppo di una propria identità capace di redimersi dagli errori del passato e andare avanti, per reintegrarsi a pieno. Ma non succede mai, e non potrebbe comunque succedere in strutture mal gestite come quelle che abbiamo ora.

Bisogna investire in un nuovo modo di prendere la questione, e rendersi conto del peso che questa ha nelle vite dei detenuti e all’interno della società.

 Serena Baiocco

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