Le otto montagne, la recensione del film: tra le vette di un’amicizia

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Di Giorgia Lanciotti

Un passo davanti all’altro, silenzio, tempo, senso della misura, essenzialità: tutto questo è Le otto montagne. Tra una vetta, che è irrimediabilmente una continua sfida, e una baita, che è quasi sempre un rifugio, si muovono sin da bambini Pietro e Bruno, fino a diventare adulti in mezzo a quella natura.

«Siete solo voi di città che la chiamate natura» sentenzia Bruno (Alessandro Borghi) ad un certo punto rivolgendosi agli amici di Pietro (Luca Marinelli) arrivati da Torino. Come astratta è la montagna nella loro mente, tale rimane anche nel nome. Ma Bruno gli insegna in fretta una lezione preziosa: anche il linguaggio della montagna è fatto di dettagli concreti, di elementi che hanno un nome proprio e che si possono indicare, prendere, toccare, senza tuttavia sottrargli l’incanto.

Le otto montagne: storia di un legame affettivo

le otto montagne © cineuropa

Il film, diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, è ispirato al romanzo Le otto montagne di Paolo Cognetti, edito da Einaudi e vincitore del Premio Strega nel 2017. La pellicola, presentata in concorso a Cannes la scorsa primavera, ha vinto il Premio della Giuria ed è uscita nella sale italiane il 22 dicembre, dove continua ad essere in programmazione grazie al positivo riscontro di pubblico.

Le otto montagne è la storia un legame di amicizia fortissimo, di una dipendenza scaturita dall’affetto tra due bambini che si incontrano tra le montagne. Pietro è di Torino e trascorre i mesi estivi nella casa di montagna affittata dai genitori. Bruno è un bambino che riconosce nelle vette le sue uniche figure genitoriali. Ad unirli, da piccoli, sono la curiosità, le avventure, più visceralmente i loro rapporti con le figure paterne, rifiutate o del tutto assenti. A dividerli, da adolescenti, la distanza e gli eventi. A farli ritrovare, una volta adulti, la morte del padre di Pietro (interpretato da Filippo Timi) e il rudere che ha lasciato a suo figlio.

Pietro e Bruno: il linguaggio essenziale di un’amicizia

Attraverso la realizzazione del progetto comune, della ristrutturazione del rudere in mezzo alla montagna, e del mantenimento di una promessa, Pietro e Bruno si ritrovano. Pietro ripercorre le tracce di suo padre e finalmente scopre il vero dono che gli ha lasciato: non un rudere, ma il suo vecchio amico.

Pietro e Bruno, che sono stati distanti per anni, elaborano un nuovo codice per riavvicinarsi. Ormai adulti, si raccontano e si riscoprono, si allontanano ma si riavvicinano ogni volta, sempre all’interno della cornice della montagna. Reciprocamente attratti, quasi dipendenti l’uno dall’altro, se Pietro si muove, esplora una parte di mondo per cercare e infine trovare il suo posto, Bruno non abbandona mai la sua amata montagna.
La loro amicizia, come il contesto in cui nasce e matura, è essenziale. Il linguaggio che i due utilizzano per comunicare evolve e muta negli anni, ma sempre contando su una buona dose di silenzi. Quando si parlano i due sono sempre diretti, il loro linguaggio non è mai accessorio quanto invece necessario.

Alla fine di tutto ci resta nel cuore una storia e nella testa una voce, quella narrante di Luca Marinelli. Le dentali di un romanesco corretto dalla dizione scandiscono il tempo tra le montagne, quella quiete incerta e quella pace che sono raggiungibili solo lassù.

Giorgia Lanciotti

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