Un occhio, quello di Pier Paolo #Pasolini, che si sofferma su tre donne, le sceglie, le chiama ad interpreti, declinazioni viventi dell’idea ancestrale di #maternità.

Un flusso di vita autentica, di viscerale fulgore, di struggente crudezza.
Un flusso che è grido, imprecazione, lamento ancestrale, sanguigno.
Si sprigiona furente dallo sguardo, si fa portavoce di una lacerazione che è strappo, dolore.
Figure originarie, plasmate dal Pier Paolo Pasolini a partire dall’asfissiante conflitto di senso, margini che divengono spazi vitali, esplorati trasversalmente, osservati da vicino, esposti.
La donna è origine. L’origine è madre.
Tre sono i punti focali, estremi rovesciamenti di uno stesso ruolo.
Se in “Mamma Roma” (1962) troviamo amore convulso, iridescente tenacia, assenza di riserve nell’ incapacità di risparmiarsi; l’occhio muta in “Edipo re” (1967) donna come amore incestuoso, invischiato nella melma del fato ambiguo, e si stravolge in “Medea” (1969) dove arriva a coincidere con la morte, violenta necessità di sacrificio.
Ci scontriamo nella prima pellicola con una creatura anticonvenzionale, una prostituta dei sobborghi romani che, contaminata da una realtà violenta, appare però innalzata dalla purezza di un sentimento in grado di farsi corpo.
Anna Magnani è qui diretta quanto estesa personificazione di una città, si afferma come prima attrice professionista in un cinema- quello del registra friulano- fino ad allora volutamente proteso ad un’attorialità pura, concreta poiché ancora informe. Città, o meglio creatura che emerge dall’anima sotterranea eppure palesata della città stessa; ruolo che costringe una professionista a rinunciare alla tecnica assimilata, ad attuare il drastico distacco dal personale bagaglio esperienziale. Ciò che dapprima sembrava distorsione, diventa atto di espansione, nuova forza espressiva.
L’attrice si fa donna di strada, si arrende al suo ruolo fino ad essere risucchiata da quel vigore sotterraneo che ne è linfa, fino ad attuare con esso un’inarrestabile simbiosi.
Nell’urlo straziante, nella vitalità che straborda, nell’ironia cruda, sperimenta la necessità di tornare al fulcro iniziale, di partorirsi di nuovo come donna, per riemergere.

Tempi diversi, luoghi lontani circondano “L’Edipo re” che, a distanza di cinque anni si offre come specchio di un mutamento.
Non più Roma ma Grecia antica, lo spazio espressivo, che sulle orme della tragedia di Sofocle, si offre allo spettatore come mondo parallelo, correlato ad una realtà contemporanea, il Nord Italia degli anni venti.
Anche qui una madre, Giocasta.
Figura amorevole ma enigmatica, reca in se nature discordanti e apre la scena cullando il figlio che poi sarà oggetto del suo amore.
All’interno di una trama vischiosa che si dispiega nella ricerca tumultuosa e forsennata della crudele consapevolezza, la scelta di Silvana Mangano diviene elemento necessario per lo scioglimento di una narrazione allucinata e violenta; il trucco angelico dell’attrice, il suo etereo pallore si pongono come scelta intenzionale affinché essa abbandoni la tragica configurazione di passionale peccatrice per apparire come vittima pura in una rete che tenta di assorbirla.
Il fato è l’unico carnefice. Gli eventi, aperti e chiusi secondo un’eccezionale “ring composition” traggono origine da una nascita e nella stessa si esauriscono, manifestandosi come eco di una vita che finisce dove comincia.
E’ però in “Medea” che la visione della maternità raggiunge le sue più estreme conseguenze.
Attraverso un’attorialità inedita, quella di Maria Callas, Pasolini mette in scena una femminilità ancestrale che vede la propria consistenza disgregarsi dinanzi al contatto inatteso con un mondo alieno, nuovo, perturbante.

Un esordio per la cantante che recentemente aveva rifiutato la proposta per lo stesso ruolo da parte di Carl Theodor Dreyer e che accetta di mettersi in gioco, di sperimentare se stessa personificando la vittima e il carnefice nell’inarrestabile convergere di due mondi.
Affascinato dalla “violenza totale dei suoi sentimenti”, il Maestro la elegge ad interprete realizzando con lei una sapiente fusione tra donna e personaggio.
Emblema di un emisfero primordiale, violentemente contrapposto alla razionalità insita nel personaggio di Giasone, lo sguardo della Callas è enigma visto da vicino laddove la scelta del primo piano si fa portavoce di una “κρισις” della psiche e delle convenzioni.
Medea psicotica, folle, inarrestabile.
Medea vibrante e viscerale.
Medea furente.
I suoi occhi dinamici, roteanti ci appaiono maestosamente anche nell’ultima scena come furie attraverso il fuoco.
Il sacrificio della prole si è compiuto e niente è più possibile ormai.
A cura di: Giorgia Leuratti