La nuova stagione di Morgana, il podcast ideato e condotto da Michela Murgia e Chiara Tagliaferri, è partito col botto, nel senso che ha fatto un tonfo che si è sentito forte fin qui. Protagoniste, loro malgrado, le sorelle Wachowski e la loro transizione.
Murgia e Tagliaferri, sui social, hanno parlato di quanto sia stato difficile costruire la puntata di apertura di questa nuova stagione, che ha come tema principale e fil rouge il “Corpo”. Sono state costrette, in realtà, a farlo poiché gli sono state rivolte numerose critiche in quanto hanno fatto uso di misgendering e deadnaming. Per chi non è avvezz*, hanno parlato di donne trans al maschile e con il nome che avevano prima della transizione.
Oggi, partendo da questo fatto, voglio soffermarmi sul perché si trovi tuttora difficoltà nel parlare in maniera non discriminante di persone che non rientrano nello spettro della normatività. E soprattutto, considerando il mio campo di studi, voglio parlare di quanto sia ancora lunga la strada verso un cinema inclusivo.
Se il cinema è inclusivo, perché offende così tanto?
«Essere grato di essere nato nel lato del mondo che in fondo è perfetto», così cantava J-Ax in Domani smetto, storico pezzo degli Articolo 31. E proprio da questa frase voglio partire per parlare della percezione che l’inclusione ha tutt’oggi nella nostra società e in particolare modo nel cinema.
Dobbiamo guardarci allo specchio e ammetterlo: se siamo bianchi, eterosessuali e cisgender siamo fortunati, perché non abbiamo subito discriminazioni e, dunque, la nostra vita è stata più facile di quella di altri. Non abbiamo scelto di esserlo, certo, ma neppure chi fa parte di una minoranza lo ha scelto. La nostra percezione è dunque influenzata dal privilegio già dalla nascita, poiché figli di una parte del mondo in cui il colonialismo copre una parte di storia davvero importante. Abbiamo così un intero immaginario che ci rispecchiasse, e che di conseguenza non considerasse – o lo facesse limitatamente – coloro che non godevano dei nostri stessi privilegi.
Non è esente da questo discorso il cinema, invenzione tutta europea che ha avuto anche l’onere di documentare, nei primi anni del Novecento, barbarie della peggior specie. L’occhio della macchina da presa è stato, per lungo tempo, maschiocentrico ed eurocentrico, senza considerare affatto la vera natura di chi, e cosa, c’era dall’altra parte, ma basandosi soltanto su stereotipi. Paghiamo lo scotto di questo atteggiamento ancora oggi: il cinema non è inclusivo, basta fare un giro sulle pagine social dedicate all’argomento per leggere di persone caucasiche e cishet offese da sempre maggiori tentativi di inclusione.
Eppure, se si include, ci guadagnano tutti: si allarga il cerchio e nessuno ne rimane fuori. Chiunque ne trae giovamento senza che altri lo perdano. Sarebbe come vivere nel migliore dei mondi possibili, ma chi possiede il privilegio ha difficoltà a estenderlo ad altri, perché teme che prima o poi possano toglierglielo. Teme, di fatto, quello che i suoi antenati hanno fatto prima di l*i. Sa in cuor suo che ciò è sbagliato, ma nessuno gli ha mai dato gli strumenti per affrontare, smussare e infine scrollarsi dalle spalle il peso della colpa. Discrimina perché è l’unica cosa che gli è stata insegnata.
Donne e male gaze
«Chissà a chi l’ha data per lavorare in quel film!»
«Eh, troppo comodo denunciare ora che non recita più!»
«Mo’ tutte violentate da Weinstein so’ state?»
Lo so che avrete sicuramente letto frasi del genere, perché lo abbiamo fatto – e continuiamo a farlo – praticamente sempre dal giorno in cui le vittime di violenza sessuale sono salite alla ribalta grazie al movimento #MeToo. Poco importa che ci fossero inchieste (tra cui quella che valse il Pulitzer a Ronan Farrow) che testimoniano quanto queste raccontano: la colpa è di chi subisce.
Questo atteggiamento colpevolista nei confronti delle donne è uno dei temi più caldi nella lotta verso un cinema inclusivo, in quanto si cercano costantemente soluzioni per riparare al danno causato da anni in cui l’occhio cinematografico era sotto costante egemonia maschile, e che quindi ha costruito immagini che soddisfacessero solo un certo tipo di spettatori. La donna è diventata, in questo modo, una merce che si acquistava con lo stesso prezzo del biglietto di uno spettacolo, sottoposta a una feticizzazione continua.
Per rispondere alla necessità di dar voce alle donne e di farle vedere sotto un’altra lente numerose sono le studiose che hanno dato il loro contributo alla Feminist Film Theory, con lo scopo di promuovere la cinematografia femminile e un’analisi delle pellicole volta non a oggettificare bensì a rendere soggetto attivo la personaggia, ma la strada da fare è ancora tanta per essere considerate, prima ancora che donne, persone; per colmare il gender pay gap; per non essere rappresentate come stereotipi sessualizzati; perché il proprio lavoro venga riconosciuto con i propri meriti.
Comunità LGBTQI+
La comunità LGBTQI+ è messa sicuramente peggio rispetto a chi è “solo” donna. La sessualità e l’identità delle persone che ne fanno parte, infatti, è oggetto di gossip, scandali e sottoposta continuamente all’attenzione scrupolosa degli altri. Pensiamo per esempio al coming out come uomo trans di Elliot Page, oppure alle stesse Lana e Lilly Wachowsky: continuamente sottopost3 a misgendering e deadnaming, senza che venga minimamente rispettata la loro identità e la loro sensibilità, senza che si sentano appartenere del tutto a quel corpo che è stato prima croce e poi delizia.
A livello di rappresentazione, c’è da mettersi le mani nei capelli: stereotipi e macchiette che ridicolizzano (e, ancora una volta, feticizzano) le persone della comunità, con il gay frivolo e simpatico, la lesbica complessata e ninfomane, i bisessuali indecisi e le donne trans a metà tra il pietismo e la sessualizzazione. Non vi è l’ombra di uomini trans né di persone intersessuali o asessuali: loro è come se non esistessero, completamente cancellati dai radar e incapaci di essere non solo riconosciuti nella società ma anche di potersi identificare con qualcuno.
Per quanto riguarda attori e attrici, sembra invece inconcepibile che, in quanto omosessuali, possano interpretare un personaggio etero. «In che modo riuscirebbe a interpretarlo se non sa cosa vuol dire essere etero?!»: nello stesso modo in cui Robert Downey Jr. interpreta un supereroe pur senza esserlo, Karen. Eppure nei suoi riguardi non c’è la stessa preoccupazione, perché non è una figura che preoccupa: è un uomo cisgender, etero, caucasico, e quindi ci è familiare ed è per questo più facile entrare in empatia con qualcosa a cui ci abituano fin dalla tenera età. Lo stesso discorso vale per attori e attrici trans, e ovviamente per registi e registe che, in un modo o nell’altro, saranno secondo credenza comune sempre influenzat3 dal proprio vissuto e dalle proprie esperienze, quasi come se la transizione venisse prima della persona e, di fatto, la riducesse soltanto a questo, senza considerarla invece a trecentosessanta gradi. Ancora una volta, stereotipi, feticizzazione e semplicizzazione.
Persons Of Color
Se promuovi il cinema inclusivo stai ovviamente promuovendo anche la fantomatica dittatura del politicamente corretto. Purtroppo è così, tu non lo sai ma ti stai facendo condizionare dalla lobby che vuol vedere scomparire le persone “normali”. Eh sì, ci sono persone normali e altre che lo sono meno. Tipo quell’attore lì, che è nero: ti pare che ha vinto l’Oscar quando c’era quello bianco che è stato molto più bravo? Lo hanno fatto apposta, pure gli Oscar ormai sono politici!
Sì, è vero: lo sono, come qualsiasi cosa riguardi i diritti umani e l’inclusione. La nostra stessa presenza al mondo è politica, perché attraverso i nostri corpi, le nostre idee e le nostre voci possiamo fare in modo di cambiare le cose, se ci esponiamo. E così lo è anche la rappresentazione delle persons of color, ovvero chi non è caucasico.
Ma vi voglio invitare a riflettere: avete mai fatto caso che questi discorsi, che malcelano tutto il proprio razzismo, non prendono mai in considerazione persone che non sono afrodiscendenti? Questo perché non esiste quasi nessun rappresentante appartenente ad altre etnie, a loro volta marginalizzate e confinate quasi esclusivamente alle cinematografie dei propri paesi di origine.
Anche le poc sono sottoposte a stereotipi offensivi: afroamericani provenienti dal ghetto che mangiano pollo fritto; donne asiatiche che fanno le escort; indiani che lavorano esclusivamente nei minimarket; latinxs che favoriscono l’immigrazione irregolare e lo spaccio. A seconda di dove nasci, dunque, sei più o meno rispettabile. E non importa che tu faccia di tutto per dimostrare che lo stereotipo che ti è stato marchiato a fuoco sulla pelle dal colonialismo è frutto di infondatezze e totalmente sbagliato: se ti dice bene, puoi sempre essere il ragazzino giapponese che è un genio della matematica.
Disabilità e malattia
Per quanto riguarda la rappresentazione della disabilità e della malattia ci sarebbe da stendere un velo pietoso. Non sto neanche a soffermarmi troppo su quanto le immagini che il cinema ci propone dell’argomento siano totalmente errate e irrispettose, poiché intrise di un pietismo che mi fa venire il voltastomaco e, a dirla tutta, pure incazzare tantissimo poiché, a rifletterci, è ciò che deve subire chi è malato anche fuori dal perimetro dello schermo della sala.
La persona non esiste più: esiste la malattia, solo la malattia, e il dolore che provoca nelle persone vicine a chi è malato. Ma l*i no: è l’esempio perfetto di resilienza, di chi ama incondizionatamente la vita, di chi ha visto la luce e il buono anche nella propria condizione. Un supereroe senza il mantello venuto al mondo per benedirci e dimostrare quanto la sua esistenza possa essere piena anche davanti a mille ostacoli.
Tradotto, ciò vuol dire che le persone disabili e malate non possono permettersi neppure il lusso di essere rappresentate per quello che sono, ossia esseri umani che con tutte le ragioni del mondo si lasciano andare alla frustrazione, alla tristezza e alla paura. No, la vita con te è già stata troppo stronza: meglio che ci puliamo la coscienza dalle ingiustizie che comunemente la società ti infligge (come quelle stesse barriere architettoniche che ti impediscono di recarti al cinema, o quelle sale cinematografiche in cui nessun film è proiettato coi sottotitoli per gli spettatori sordi o con l’audiodescrizione per i non vedenti) rendendoti una persona migliore di noi. Evviva, anche oggi trionfa l’abilismo, e vissero tutti felici e contenti. Come dici? Non abbiamo mai rappresentato disabili omosessuali o poc? Eh, ma pure voi quanto siete esagerati! Non vi va mai bene niente! Andrà a finire che non si potrà più dire nulla perché vi offenderete!
No, è troppo tardi: siamo già offes3.
Cosa fare affinché il cinema sia inclusivo?
Anche se il taglio di questo articolo è catastrofista, credetemi: possiamo ancora cambiare le cose affinché il cinema sia inclusivo e possa essere un comfort place per tutt3. Ma dobbiamo muoverci insieme e far sì che siamo parte integrante della rivoluzione, anche se non apparteniamo alle categorie citate sopra: è importante finanziare quei piccoli film che danno una giusta rappresentazione, cosicché guadagnando possano essere diffusi e conosciuti. Non dobbiamo avere pregiudizi ed essere liberi da sovrastrutture – non solo in sala, ma anche nella vita –, dimostrarci interessati e supportare i progetti volti all’inclusione (come Lynn, il comparto editoriale di Groenlandia dedicato totalmente alla regia femminile). Dobbiamo chiedere e pretendere che vi sia inclusione fuori e dentro il set cinematografico attraverso la presenza di rappresentanti di determinate categorie che sappiano cosa raccontare e come farlo, che ci insegnino a superare i nostri limiti e a migliorare quest’arte; è importante infatti che ci sia una pluralità di punti di vista quando si costruisce un film perché si sta tramandando una storia, ed è il nuovo modo di tramandare oralmente il nostro presente al futuro.
D’altronde anche Omero era cieco, ma c’è stato qualcuno che gli ha prestato mani e vista. Il resto è mito, sì, ma anche e soprattutto storia.
Chiara Cozzi
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