
È stato presentato al Festival del cinema di Roma, “Calabria, Terra mia“, il corto di Gabriele Muccino dalla polemica lunga, più dei suoi titoli di coda. Sei minuti per presentare la regione, per narrare l’appartenenza alla terra, per idealizzare Raul Bova e sua moglie Rocio Munoz, nella parte di protagonisti e figuranti, tra le immagini fiume, che dovrebbero parlare più dei dialoghi.
A far infuriare il popolo calabro, “tosto” come la buccia di quel bergamotto, la vittoria delle clementine su Tommaso Campanella e Corrado Alvaro. Per non dire che, l’ultimo asino passato in Calabria, aveva in groppa mio nonno. La mente torna a c’era una volta, e alla figura di “Pascale u’surdu”, che non fa nessuna rima con Penelope e Adelaide. Non un nome d’arte, ma battezzato così dalla gente, con la stessa solennità di una sacrestia e l’ufficialità di una anagrafe. Lui viaggiava in un furgoncino adibito ai servizi cinematografici, e si spostava a chiamata per tutta la regione.
Tradizioni e dicerie di Calabria
Durante i tragitti, capitava, all’esperto di cinema, di rallentare perché s’imbatteva in un carretto e il suo asino, o in un gregge di pecore scortato dal guardiano maremmano. Un pastore anch’esso, ma ringhioso. E subito, con la prontezza di chi fa il cineasta anche per diletto, la sua macchina da presa filmava. Senza effetti speciali, coglieva ciò che c’era da cogliere, facendo come suoi potenti mezzi, solo incontaminati territori e i loro personaggi.
Lui che era specializzato in matrimoni, aggiungeva ai filmati di sposalizi, queste scene bucoliche e agresti, che si offrivano a dare il benvenuto, in un luogo orgogliosamente calabrese. E poi, la camera insisteva sulle “ramele di carne e patate”, e “maccarruni i’ ziti” immancabili sul banchetto degli sposi. Opportunamente riservate ed offerte, anche agli operatori di ripresa. Quando arrivava l’uomo del cinema, o il “circo di ciabatta”, nei paesi l’evento era assicurato.

Intellettuali, poeti e Muccino
Ma, l’ultima freccia scagliata, che colpisce dritta in petto il calabrese, è il titolo dell’opera “Calabria, Terra mia“. Gli fa eco un “mo mi raschu”, partito da Cosenza centro. Il calabrese chiede a gran voce le immagini della propria terra: le strade inerpicate su per i pendii, dove i monti della Sila e l’Aspromonte sono le vette più alte. Per poi scendere nelle vie che si snodano fino alla punta dell’estremo sud. Là dove con un cenno di saluto, pare vederti e risponderti, dalla costa dirimpetto, il cugino siciliano.
Passando accanto le fioriture della primavera, alle piane che tra Sibari e Rosarno, si stendono tra beltà terrene. Che anche un poeta avrebbe il “fiato morente” a decantare quelle terre, che trasudano bellezza e sudori, fatica e glorie. Che, quando il mare si allontana, la perdita d’occhio nell’azzurro, si avrà nel verde degli olivi, nel giallo invernale della gramigna infestante. Che cresce ovunque, spontanea, solitaria, “avvinta come l’edera”, e copre ogni dove, che siano terre, che siano rocce.

Un corto al sapore agrodolce…
Dove sono i volti dalle rughe autentiche di sole, pelli scure, sopracciglia folte e una crosta dura come pelle? L’aspetto puro calabro, marchio di genuinità, come quello di un pescatore. Che è ancora notte, quando schiuma e onde sbattono sulle rocce. Magari di Scilla. Dove affiorano muschio e patelle sotto casa. Dove, tra spruzzi di mare e sbadigli, si consuma il lavoro mattiniero del marinaio. Sollevatosi dal cuscino, appena poco più sopra le acque che battono.
Sono sicura, che il calabrese, avrebbe messo nella propria stanza da letto un quadro di Muccino. Con l’ammirazione e la venerazione dovute ad un grande regista, impegnatosi in un lavoro memorabile; sulla consolle, sotto un centrino di pizzo, che in Calabria lo trovi ovunque. Sul televisore, sotto il telefono. O fatti un giro nel salotto e, ogni cornice, sarà adagiata sulle impunture inamidate di un sacro stuolo “uncinettato”.

Vizi e virtù
Gli stessi parenti da Raul Bova, originario calabrese doc di Roccella Jonica, sarebbero stati testimoni di tradizioni, pietanze culinarie, e quant’altro detto e non detto, che un verace personaggio del posto, senza artifici, ti mostra anche se non glielo chiedi. Anche senza parlare. E non basterà certo mettere una coppola in testa, o un “cazuni alla zumpa fuosso” per travestire un attore in un meridionale.
Si poteva provare a liberare due famosi attori, come Raul Bova e Rocio, in una piazza calabrese. Come due giovani vitelli appena svezzati, timidi ed impauriti, sarebbero stati travolti dalla focosità di un popolo. Si, perché, tra un “chi n’è chissu?”, domanda d’obbligo se sei un forestiero, e una presa sotto il braccio a rivendicare il sodalizio di una conoscenza di cui vantarsi, la festa sarebbe stata garantita.

Il corto di Muccino che non ti aspetti…
L’ospitalità è sacra in Calabria. Per fare un vero documentario calabrese bisognava parlare di “pitta ‘mpigliata”, “fraguni”, “a scirubetta cu la neve da crucetta”, “giurgiulena”, “u padduni i ficu”, “mustazzuoli”, “buccunotti cu mustarda”, “purpetta i mulingiani”. Ma, non sarà certo l’elenco di primizie mancato, a dare lacune al filmato. Semmai, ci avrebbero fatto sognare, le immagini di quella terra che, quando vedi il mare vedi anche il cielo, e non li distingui. Che se guardi tra le nuvole, vi arrivano le montagne. Che cammini e voli. Che puoi vagabondare abbagliato.
E, non importa davvero, se Muccino avrà assaggiato uno “stuocco di sazizza” invece di una soppressata. Quando, prima di Natale, Gaspare “ammazzerà il maiale”, certamente, si ricorderà di mettere il finocchietto. Per la prima volta nella storia. E, ingegnoso ed arguto com’è, presenterà ai clienti della sua macelleria, l’unica, vera soppressata di Muccino. Quella originale, “cu la lacrima”, la stessa che avremmo voluto versare guardando il suo corto.
Federica De Candia per MMI e Metropolitan cinema. Seguici!