“My fair lady”: il mito secondo la vecchia Hollywood questa sera in tv

Foto dell'autore

Di Redazione Metropolitan

In principio fu il “Pigmalione” di George Bernard Shaw, leggendario riadattamento teatrale moderno datato 1912 dell’omonimo mito greco. Poi fu il turno del musical “My fair lady” di Broadway, firmato da Alan Jay Lerner e Frederic Lowe del 1956. Otto anni dopo venne l’ora di Hollywood e del grande schermo, di Audrey Hepburn e di un nuovo, eccezionale capitolo dell’infinita riproposizione del mito fondativo.

Eliza Doolittle (Audrey Hepburn) è una giovanissima popolana londinese di inizio novecento, abituata a sbarcare il lunario vendendo fiori nei pressi dei luoghi di ritrovo dell’alta borghesia cittadina. Rozza, incolta e mossa da una vitalità fuori dal comune, all’esterno di un teatro del centro fa la casuale conoscenza del professor Higgins (Rex Harrison), sardonico e saccente esperto di fonetica.

“My fair lady” e l’attrazione sociale degli opposti

Colpito dalla sua volgarità, scommette con l’amico colonnello Pickering (Wilfrid Hide-White) di essere in grado di trasformare quella sguaiata fioraia di strada in una perfetta signora dell’alta società in soli sei mesi. Ospita così la ragazza nella sua ricca casa di professore borghese, e da inizio all’esperimento.

Allora 35enne, Audrey Hepburn arrivò a “My Fair Lady” da superstar acclamata. Reduce dell’incredibile successo di “Colazione da Tiffany” di tre anni prima, faceva stabilmente parte dell’empireo di un certo tipo di cinematografia squisitamente hollywoodiana già dai tempi di “Vacanze romane” (1953) e “Sabrina” ( 1954). Eppure il ruolo di Eliza Doolittle, a cui venne all’ultimo preferita a Julie Andrews, rappresenta un’ulteriore, forse inattesa sfaccettatura delle sue qualità interpretative fino a quel momento concentrate soprattutto in ruoli più convenzionali e rappresentativi di una certa grandeour narrativa sentimentale made in Hollywood.

fonte Cineon.it

La declinazione della sua peculiare vitalità silvana, da spiritello boschivo prestato alla città, secondo le regole della manifesta esuberanza popolare e cockney, fatta di poco rispetto per le convenzioni sociali e istinto di sopravvivenza, fu senza dubbio uno dei cardini su cui il regista George Cukor potè imbastire il suo musical cinematografico. Di formazione prettamente teatrale, George Cukor ebbe il merito di saper trasporre sul grande schermo le dinamiche registiche tipiche della sua area di provenienza senza mai eccedere in eccessi e complicazioni da grande schermo.

Al centro del tutto, Eliza e il professor Higgins, due mondi opposti a confronto che solo all’apparenza interagiscono in direzione univoca: la “formazione sociale” di Eliza metterà quasi immediatamente a nudo gli strati di ipocrisia, maniera e rigidità di quel mondo che si promette di redimerla dalla sua presunta condizione di indigenza civile.  Sarà proprio lei, in una delle tante battute indimenticabili di una sceneggiatura costruita su serrati e deliziosi duelli verbali, a mettere a nudo la fallacità dell’intero esperimento educativo di Higgins.

Musical dal superficiale slancio sentimentale, certo, ma anche e soprattutto riflessione e critica delle convenzioni e falsità strutturali di una certa società inglese, puntellato da un cast di contorno che, dal padre di Eliza Alfred (Stanley Holloway) a Mrs. Higgins (Gladys Cooper), forma un variegato e godibilissimo ambiente umano che dona sostanza e respiro a tutta la narrazione.

Non senza tensioni, la Hepburn venne quasi del tutto estromessa dalle registrazioni vocali dei pezzi di Eliza e sostituita dalla soprano Margaret Nixon. Una vocalità interpretativa della protagonista che, canzoni a parte, non può che essere goduta nel suo doppiaggio originale: il doppiaggio italiano fa inevitabilmente perdere grandissima parte dell’intenzione attoriale fondante, costruita com’è sulle strascicature e imperfezioni fonetiche del cockney londinese e del confronto con la sua controparte “alta” di Mr. Higgins.

All’assegnazione dei premi Oscar del 1964, “My Fair Lady” fece piazza pulita di quasi tutti i rivali, conquistando 12 nominations e otto statuine, ma molto a sorpresa Audrey Hepburn non venne scelta come miglior interprete femminile. Il premio fu assegnato dall’Accademy a Julie Andrews per “Mary Poppins”: i più maliziosi sussurrarono come parziale rimborso “politico” dell’esclusione della stessa Andrews dal cast iniziale, dopo averlo portato lo spettacolo al successo nei teatri di Broadway.

Andrea Avvenengo

Seguici su:

Facebook, Twitter, Metrò