My Sweet Lord, George Harrison: il primo singolo da solista inciso il 4 settembre 1970, chiusa l’esperienza con i Beatles. Una canzone meditativa, spirituale, riflessiva: un inno al Signore di ogni credo religioso.
My sweet Lord, George Harrison: il successo della spiritualità
E’ il 4 settembre 1970, quando, My sweet Lord di George Harrison viene registrata. All Things Must Pass è il terzo album da solista di Harrison, ma il primo a uscire dopo lo scioglimento dei Beatles. Considerato il primo disco pop dell’artista che, fino a quel momento, si era misurato in composizioni sperimentali, non solo spodestò le classifiche inglesi e americane ma vendette sette milioni di copie in tutto il mondo. Sarà proprio il singolo My sweet Lord a portarlo al successo di massa.
Una melodia semplice accompagna un testo senza alcuna pretesa di moralismo:il brano è fortemente cadenzato da toni religiosi che sottolineano la profondità di Harrison; un’anima intrisa di misticismo, spiritualità e pacifismo. Tuttavia, dopo il successo esponenziale del testo, l’ex Beatle fu accusato di plagio. Si riscontrò, infatti, una somiglianza con un pezzo delle Chiffons, datato 1963: He’s So Fine. Sono numerose le teorie sull’origine del brano; successivamente, però, il baronetto inglese dichiarò di essersi ispirato all’inno cristiano Oh Happy Day: dagli iniziali arrangiamenti gospel del noto brano a una moderna versione dalle tonalità pop.
Una canzone contro la chiusura dei credi religiosi a favore di una spiritualità condivisa
My sweet Lord di George Harrison è da annoverare, sicuramente, ad un inno religioso in versione moderna, come le evidenze contenutistiche del testo dimostrano; in generale, però, il brano intende la religione nel senso più ampio del termine consueto. Harrison non apparteneva, pubblicamente, a nessuna religione in particolare. Si noti, infatti, come nel testo siano presenti copiose contaminazioni religiose, appartenenti a credi diversificati: dall’espressione ebraica ”Halleluja”, fino ad arrivare all’inno Visnava, Hare Krishna. Lo scopo del brano è indurre alla ricerca di Dio, capire la sua onnipotenza, nonostante le difficoltà che, questo ricongiungersi, implichi: la canzone, infatti, sottolinea la difficoltà di un percorso tortuoso affinché si giunga alla contemplazione di Dio stesso. Le voci corali che intervengono all’interno della melodia, enfatizzano ancor di più l’obiettivo primario del testo: i cori denotano il brano di un senso religioso in cui, qualsiasi credente di qualsiasi fede professata, può riconoscersi. Non è importante l’appartenenza a un Credo. Non importa che il Dio a cui ci si rivolge appartenga all’induismo o al religione cristiana; ciò che conta è il messaggio di amore e di appartenenza ad una comunità scevra da etichette.
My Sweet Lord, George Harrison: l’unione del canto ebraico Hallelujah e il mantra Hare Krishna
Il brano è un canto di totale abbandono a quell’idea di chiusura propria dei principi religiosi: ciò che si esorta è una spiritualità condivisa. Volutamente, Harrison, utilizza in My sweet Lord espressioni tipicamente religiose: da un lato il noto Hallelujah ebraico; dall’altro, il mantra Hare Krishna. L’ex Beatle affermò di aver voluto inserire volutamente le due espressioni, proprio per sottolineare l’uguaglianza semantica del loro contenuto.
L’accostamento di questi due termini, apparentemente agli antipodi, definisce interamente il significato del pezzo: My sweet Lord, infatti, non è un cantico celebrativo indirizzato a una specifica fede o a una singola e peculiare divinità: è un’esortazione alla spiritualità nella sua interezza, una lode alla pluralità di sfumature che esistono nei meandri mistici di ogni essere umano, anche se si tratta di religione.
Stella Grillo
Foto di copertina: My sweet lord, George Harrison – Photo Credits: teatroemusicanews.com