Perchè la giustizia internazionale non ha gli effetti che si aspetterebbe dovrebbe avere in Medioriente?

La diplomazia internazionale ha dimostrato una resilienza straordinaria, nell’intervento in alcune regioni del mondo e nel corso della storia. Tuttavia, quando si tratta delle guerre in Medio Oriente, la sua capacità di influenzare gli eventi sembra tragicamente limitata. Questo scenario si ripete in vari contesti: dal conflitto tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza, alla crisi in Libano, fino alla potenziale escalation tra Israele e Iran. Per comprendere perché la diplomazia fallisce, è necessario analizzare una serie di fattori che vanno oltre la semplice negoziazione tra le parti. Entrano in gioco interessi geopolitici globali, la natura stessa delle forze belligeranti e le tensioni strutturali della regione.

Le logiche della guerra

Uno dei principali motivi per cui la diplomazia fatica a mettere fine ai conflitti in Medio Oriente è l’influenza delle logiche di guerra radicate nelle dinamiche interne delle forze in lotta. In ogni conflitto, ci sono attori che, per vari motivi, non sono disposti a deporre le armi. Prendiamo, ad esempio, la proposta di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza menzionata nella fonte. Fu negoziata per mesi e prevede la liberazione di ostaggi da parte di Hamas in cambio del rilascio di prigionieri palestinesi e l’accesso agli aiuti umanitari. Tuttavia, ogni volta che sembra sul punto di concretizzarsi, la trattativa si interrompe. Probabilmente spesso a causa della mancanza di pressione politica adeguata su entrambe le parti. Le guerre in Medio Oriente sono profondamente radicate in questioni identitarie, religiose e territoriali. Per molti attori – sia statali che non statali – la sopravvivenza stessa dipende dalla prosecuzione del conflitto.

Hamas, per esempio, ha costruito una narrativa di resistenza propria e forte. Questa rende estremamente complesso per i suoi leader accettare qualsiasi compromesso che possa essere percepito come una resa. Allo stesso tempo, Israele ha la sua granitica politica di difesa e sicurezza. Questo, assieme ad una sfrenata follia espansionista, lo rende riluttante a concedere terreno. Il tutto, soprattutto se non viene garantita la fine delle minacce alla sua sicurezza nazionale. Le logiche di guerra prevalgono su quelle diplomatiche, creando un circolo vizioso di violenza difficile da rompere.

Non contano solo gli interessi delle forze “coinvolte” ma anche di chi le sostiene

Un altro fattore chiave che complica gli sforzi diplomatici è rappresentato dalle tensioni tra gli alleati internazionali dei belligeranti. Il caso della proposta di cessate il fuoco in Libano, negoziata tra Francia e Stati Uniti, è emblematico. Il fallimento di questa iniziativa non è solo attribuibile alle parti sul campo, ma anche alle divisioni tra le potenze internazionali che sostengono tali negoziati. Quando Emmanuel Macron ha chiesto un embargo sulle armi destinate a Israele, in particolare dagli Stati Uniti, è stato aspramente criticato da Netanyahu. Le tensioni tra Washington e Parigi hanno ostacolato qualsiasi possibile progresso diplomatico. Inoltre, l’uccisione di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, in seguito ai bombardamenti israeliani su Beirut, ha praticamente distrutto ogni possibilità di accordo. La reazione degli Stati Uniti, che hanno sostenuto Israele senza considerare le conseguenze diplomatiche, ha ulteriormente complicato il quadro.

Come sottolineato da Dario Fabbri e analisti di Limes, gli interessi geopolitici globali giocano un ruolo determinante. Gli Stati Uniti, pur cercando di prevenire un’escalation in Iran, non agiscono su Israele. Anzi, tendono a concedere ad Israele libertà di azione nelle sue operazioni militari, limitandosi a evitare che il conflitto si espanda oltre certi limiti. Questo approccio, sebbene comprensibile dal punto di vista della sicurezza nazionale americana, mina la credibilità degli sforzi diplomatici a lungo termine. La competizione tra le potenze globali per l’influenza nella regione, in particolare tra Stati Uniti, Russia e Cina, crea ulteriori ostacoli. Poiché ogni attore cerca di promuovere i propri interessi strategici piuttosto che lavorare verso una pace duratura.

La giustizia internazionale che si scontra con gli interessi regionali e globali, generando sfiducia

Secondo fonti come Al Jazeera e Geopolitica.info, uno degli ostacoli principali è la sovrapposizione tra interessi regionali e globali. Le grandi potenze, come gli Stati Uniti, sono spesso più preoccupate di proteggere i propri alleati strategici, come Israele, piuttosto che agire come mediatori imparziali. In effetti, secondo alcuni analisti, la diplomazia statunitense oggi cerca di evitare che Israele bombardi l’Iran, più che cercare una vera pace tra le parti in conflitto.

Le pressioni interne a Israele e agli altri paesi coinvolti giocano un ruolo determinante. Netanyahu, per esempio, agisce spesso sulla base di calcoli interni piuttosto che diplomatici. Ciò si può vedere nel bombardamento di Beirut dopo aver ottenuto un fragile accordo di cessate il fuoco. La frammentazione del consenso tra alleati occidentali si è vista nelle tensioni tra Francia e Stati Uniti sull’embargo sulle armi. Questo rende ancora più difficile la coordinazione diplomatica. Un altro punto centrale, spesso evidenziato da Al Jazeera, è la perdita di fiducia nella comunità internazionale.

Essa è vista come incapace di proteggere i civili palestinesi e troppo incline a sostenere Israele per ragioni storiche e politiche. Questo porta alla sfiducia, di conseguenza, per la giustizia internazionale. Le tensioni tra paesi come l’Iran e Israele non solo complicano i negoziati, ma fanno crescere il rischio di conflitti su scala regionale. Gli analisti sottolineano che la diplomazia non può funzionare efficacemente finché il conflitto si alimenta tramite da potenze esterne con i loro interessi nazionali o elettorali​.

Un focus sugli attori regionali: Hamas e Hezbollah

In Medio Oriente, gli attori non statali, come Hamas e Hezbollah, giocano un ruolo cruciale che la diplomazia tradizionale fatica a gestire. A differenza dei governi nazionali, questi gruppi armati hanno una struttura di potere decentralizzata. Quindi spesso non rispondono agli stessi incentivi politici che possono influenzare uno Stato sovrano. Questo rende estremamente difficile per la diplomazia internazionale esercitare una pressione efficace. Anche quando si ottiene un consenso tra i governi (come nel caso del cessate il fuoco negoziato tra Francia, Stati Uniti e Israele) ecco che la morte di Nasrallah ha scatenato una reazione a catena che ha reso il processo diplomatico inutile.

Iran, Arabia Saudita, Turchia e altri attori regionali esercitano una forte influenza sui conflitti, sostenendo fazioni diverse per promuovere i propri interessi strategici. Questi stati spesso vedono i conflitti come strumenti per rafforzare la loro influenza nella regione, il che riduce ulteriormente l’efficacia della diplomazia. L’Iran, ad esempio, ha interesse a mantenere l’equilibrio di potere attraverso il sostegno a Hezbollah e Hamas, vedendo in questi gruppi una leva per contrastare Israele e l’influenza occidentale.

L’ossessione per la sicurezza di un Israele che agisce nella totale impunità

La diplomazia americana in Medio Oriente, tradizionalmente un attore cruciale, sembra essere in una crisi profonda. Gli sforzi di Washington si concentrano sulla gestione delle crisi immediate, come evitare che Israele attacchi l’Iran, piuttosto che cercare soluzioni durature. Questo atteggiamento, più volto al contenimento che alla risoluzione, riflette un approccio miope. Così, si privilegia la stabilità a breve termine a discapito di una pace duratura. Come evidenziato dalle fonti, l’ossessione per la sicurezza di Israele spesso mette in secondo piano le necessità di una risoluzione negoziata con Hamas o Hezbollah.

Il sistema di alleanze in cui gli Stati Uniti sono invischiati complica ulteriormente i processi diplomatici. Washington si trova ad agire non solo come alleato di Israele. Cerca infatti di agire anche come un attore che deve mantenere un equilibrio instabile con altri paesi regionali, come l’Arabia Saudita e l’Iran. Questa dualità rende la diplomazia americana ambigua e spesso inefficace, perché le pressioni interne ed elettorali prevalgono su una strategia coerente. Come notato da vari analisti, la politica statunitense si preoccupa più di contenere le crisi piuttosto che affrontare le loro radici.

Frammentazione e paralisi delle potenze occidentali: come si inibisce la giustizia internazionale

Uno dei fattori più evidenti di questo fallimento per i meccanismi di giustizia internazionale è la paralisi derivante dalla frammentazione delle potenze internazionali. Ciò è visibile in particolare all’interno dell’Occidente. Le tensioni tra la Francia e gli Stati Uniti, soprattutto riguardo all’embargo sulle armi verso Israele, danno la cifra della situazione. Esse mostrano come le divisioni interne agli alleati occidentali impediscano un’azione diplomatica concertata. In questo contesto, gli attori regionali, come l’Iran, Hezbollah e Hamas, sfruttano abilmente tali spaccature per mantenere il conflitto vivo.

Infine, la diplomazia fallisce perché manca una visione chiara e unitaria per il futuro del Medio Oriente. Gli interessi contrastanti, le rivalità storiche e il supporto incondizionato degli Stati Uniti a Israele (con la fama di essere un baluardo contro l’influenza iraniana), rendono quasi impossibile un vero processo di pace. Come sottolineano gli esperti, senza un cambiamento strutturale nelle dinamiche regionali e globali, non si può sperare diversamente. Così, la diplomazia non potrà che rimanere un tentativo futile in una regione dilaniata dalla guerra.

Maria Paola Pizzonia