Cinema

“Parasite”: l’involuzione del conflitto sociale secondo Bong Joon Ho

Si può o non si può vedere nella cronistoria filmica di Bong Joon Ho un netto peggioramento del suo approccio alla realtà, alla mediazione artistica del mondo capitalista, coreano ma anche mondiale. Curioso come, dopo “Parasite“, “Snowpiercer” ne sembri quasi l’immediato capitolo posto ad appena dodici anni di distanza.

E’ pur vero che, come si suol dire, si debba toccare il fondo per cominciare a risalire. Difficile che dopo “Parasite”, l’umanità di Bonj Joon Ho trovi ancora tempo e modo per scavare ancora più a fondo. Dopotutto alla mostruosa distopia eco-classista di “Snowpiercer” mancherebbero meno che una decina di anni.

“Parasite”: il mondo di sopra e il mondo di sotto

La famiglia Kim vive di lavoretti in uno sporco seminterrato di uno slum popolare di Seul. Un giorno un amico del primogenito Ki-woo gli propone di sostituirlo come insegnante di inglese presso una ricca famiglia della città, i Park. E’ sufficiente che si finga studente universitario e il posto sarà suo. Una volta introdotto con successo presso i ricchi Park, Ki-woo coglie l’occasione per spacciare la sorella  Ki-jung come un’amica specializzata in arte terapia, attività ideale per l’iperattivo figlio maschio dei Park, Da Song. E’ una macchinazione  della stessa Ki-jung a fare in modo che il padre Ki (un eccezionale Kang-ho Song) venga ingaggiato dai Park come autista privato del padrone di casa, nascondendo la loro parentela.

Per ultima la madre, che grazie ad un ulteriore complotto ordito dai figli riesce a sostituire la vecchia governante. I Kim, almeno apparatemente, sembrano avercela fatta. Ma un notte di pioggia l’ex governante si presenta alla porta dei Park, e manifesta un particolare interesse per ciò che si nasconde nelle cantine di casa…Dove nella pellicola del 2013 il sottoproletariato brutto, sporco e cattivo nutrito a barrette iperproteiche fatte di scarafaggi sviluppa un minuscolo accenno di solidarietà di classe e di avanguardia rivoluzionaria, in “Parasite” i poverissimi hanno un solo ed unico fine: quello di sostituirsi alle controparti benestanti. Sostituirsi fisicamente, se possibile.

“Parasite”: topo mangia topo

Da scarafaggi da seminterrato fumigati dagli addetti comunali e famiglia che si gode dall’enorme vetrata di casa il giardino in una notte di pioggia accomodato su un lussuoso divano. Non più la vetrata del proprio fetido buco nell’asfalto, dove sistematicamente gli sbronzi di quartiere vanno a svuotarsi la vescica. Arraffare il più possibile, farsi spazi con l’inganno nella guerra dei poveri contro i poveri, pensare di poterla fare franca solo perché intelligenti e bisognosi. Ma come ci insegna il piccolo Da Song, i ricchi imparano presto a riconoscere l’odore dei poveri. I ricchi Park possono permettersi di non essere svegli, brillanti o creativi come la truffaldina Ki-jung, che presto s’inventa un ruolo di tutor artistica del rampollo di casa .

Dicono che un fantasma in casa porti fortuna. E infatti gli affari stanno andando bene” dice la ricca Yeon, riferendosi alla misteriosa apparizione che anni prima ha traumatizzato l’irrequieto Da Song. Non sospettano assolutamente di nulla fino alla tragedia finale, i Park. Possono permettersi, data la propria condizione, di non capire assolutamente niente  di quello che gli sta facendo sotto il naso. Di ciò che succede sotto di loro. Di ciò che succede ovunque. La guerra è tutta tra diverse generazioni di poveri: quelli che quella villa la infestano dai tempi del vecchio padrone, il celebre e visionario architetto Namgoong, e i nuovi al servizio dei Park, idealmente pronti a prenderne il posto in una ciclica e sempiterna ripetizione dei rapporti di classe. Ci si abitua presto agli agi e alle prospettive del benessere.

Innocence is a thing of which we know nothing

Poco male che Ki-woo tradisca la fiducia dell’amico che l’ha introdotto alla famiglia Park iniziando una relazione con la figlia maggiore dei Park, di cui lui stesso era innamorato. Non può che essere quello lo step successivo della tanto augurata ascesa sociale. Che l’improvvisa libertà li spinga a comportarsi come ratti in un granaio, tra bottiglie di preziosi scotch e delizioso cibo per cani. O che all’interno della villa gli eventi li costringano a strisciare come vermi, a correre a quattro zampe come topi in cerca di un nascondiglio. Non c’è spazio per l’emotività nella giungla, né per l’autostima. Si è predatori o prede. Ogni lasciata è persa. Uno spaventoso affresco contemporaneo che Bong Joon Ho ci regala lasciando da parte allegorie di sorta e giocando con diverse grammatiche narrative perfettamente omogeneizzate.

Satireggia su una tragedia sociale con splendide e leggerissime pennellate di una surrealtà che sembra essere un’altra delle leggi condivise del mondo che ci racconta. Con un perfetto twist che cade a metà pellicola trascina la costruzione narrativa nei pressi dell’esplosione di violenza, che altro non è che la semina per quello che sarà l’effettivo, brutale climax dell’intera vicenda. E’ un cinema splendidamente geometrico, il prodotto di un estremo senso estetico che non si riduce mai a mero auto-compiacimento. Bong Joon Ho lascia che innanzitutto a raccontarsi siano gli spazi antitetici delle narrazione (l’orrendo seminterrato dei Kim e la meravigliosa villa dei Park). Alto e basso, spazioso e angusto, luminoso o tetro, asciutto o allagato, Park o Kim.

Delle due, l’una

La dicotomia è sempre la stessa ed è l’unica dialettica possibile, sembra dirci Ki-Woo nella battute finali della pellicola. Qualcuno muore e qualcuno sopravvive, certo, ma non vince né perde nessuno. O meglio, a vincere è l’ordine delle cose. Non cambia nulla. Non c’è e non può esserci evoluzione per i suoi protagonisti. Esistono centinaia, migliaia di Kim e Park pronti a raccontare di nuovo la stessa storia, almeno fino alla prossima glaciazione. Dopotutto, in quella bizzarra e immaginaria forma di comunicazione che ha col padre,  Ki-Woo gli promette che farà di tutto perché loro possano riabbracciarsi. E l’unico modo non può essere che quello in cui lui stesso diventi un nuovo Park.

Andrea Avvenengo

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