Peele, Eggers e Aster come padri del nuovo Elevated Horror

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Di Alessandro Libianchi

A partire dagli anni Dieci del Duemila, si è sviluppato un nuovo modo di intendere il genere horror, che nei primi duemila e fine anni Novanta, rischiava di rimanere ancorato a delle dinamiche fin troppo stagnanti (con le dovute eccezioni). Negli ultimi anni, sono nati in sequenza film dall’elevata caratura di significato, nascondendo dentro di sé peso ed espressione di concetti raramente affrontati dal genere. Stiamo parlando del sottogenere dell’Elevated Horror, definito così perché ha “elevato” l’horror a genere altro, a dispensatore di narrazioni psicologiche, politiche e folkloristiche e a genere che supera lo spavento puro e lo rende mezzo per esprimere. Anche se pellicole inscrivibili nell’art horror (altra definizione usata) sono riscontrabili nel cinema anni Venti e Trenta del Novecento con film come Nosferatu di Marnau, M di Fritz Lang (quindi riconducibili all’espressionismo tedesco) o La moglie di Frankenstein di James Whale, il termine è rinato solamente in tempi moderni. Nonostante la definizione non sia amata dagli stessi registi che vengono inclusi come più rappresentativi del genere (Jordan Peele l’ha definita una “trappola”), l’elevated horror è, ormai, un sottogenere collaudato, che si fa forte di interpreti talentuosi, di idee che ne alimentano il fuoco e di grande autorialità. Da Babadook di Jennifer Kent a Men di Alex Garland, da Antichrist di Lars Von Trier fino a Titane di Julia Ducournau, andremo ad analizzare quelli che sono i tre autori più popolari e che più di tutti hanno dato slancio e via al sottogenere, per motivi diversi tra loro. Jordan Pelee, Robert Eggers e Ari Aster.

Jordan Peele: l’elevated horror e il razzismo

da sinistra a destra: Us di Jordan Peele, Midsommar di Ari Aster e The Lighthouse di Robert Eggers

Peele nasce come attore comico di grande successo, per poi, come regista e sceneggiatore, cambiare totalmente emisfero dedicandosi all’horror. La sua prima opera, un capolavoro dell’orrore, Scappa – Get Out del 2017, contiene in sé tutti i significati impliciti del cinema di Peele. Dal tema del razzismo fino a quello dell’oppressione di classe, Get Out li affronta tutti in un profilmico meravigliosamente messo in scena. E se la famiglia ricca è la tipica famiglia di bianchi oppressori contro le minoranze, si fa anche rappresentazione di una borghesia che, per proprio giubilo, schiaccia le classi medie e basse. E se le famiglie rappresentano la classe alta sfruttatrice, il personaggio di Daniel Kaluuya si fa rappresentazione delle classi popolari. Peele unisce, in una narrazione intersezionale, un discorso sia di privilegio economico e di status sociale, che di razzismo. Tutto condito con un’horror fantastico. Nel suo secondo lungometraggio, affronta ancora il tema del classismo e della marginalizzazione, ampliandolo però all’America tutta. A partire dal titolo Us che ricorda tremendamente U.S., “United States”. La paura dell’altro si fa allegoria della paura di sé stessi, e, ancora una volta, Jordan Peele usa l’horror per criticare aspramente la forte dualità e disparità della società americana, tra chi vive nella ricchezza e chi vive nella povertà assoluta. Ultimo prodotto di Jordan Peele è il recente Nope del 2022, un horror atipico, che aggiunge dell’humor ad un film di palese ispirazione Spielberghiana. L’etica dello sguardo moderno è tra i temi centrali del film, con una società troppo impegnata a guardare per rendersi conto di cosa veramente accade intorno. Se vogliamo trovare un bel parallelismo, possiamo notare come lo sguardo del film sia sempre posto verso l’alto, verso la nuvola che si muove, in contrapposizione al nostro, sempre basso. Ma in ogni caso, entrambi sguardi che ci impediscono di vedere ciò che ci circonda. Peele gira il suo film più grande. Lo gira su pellicola IMAX (prima volta per un horror) e lo imbastisce di trovate registiche meravigliose, passando dall’horror di tensione, al film d’azione e Kaiju eiga del finale. Allo stesso tempo, trova spazio la critica ad un razzismo che, oggi più di ieri, trova aria in ogni angolo della società. Un film brillante.

Robert Eggers: il folk-horror moderno

Robert Eggers è un regista diametralmente opposto a Jordan Peele ma che rappresenta, anche lui con tre film all’attivo, lo spirito rinnovato dell’horror moderno con uno sguardo palesemente espressionista. Il suo primo lungometraggio è quel capolavoro di The Witch del 2015, ambientato nel New England del 1600, con una straordinaria Anya Taylor-Joy. Il film presenta, anche nel caso di Eggers, le caratteristiche embrionali della sua idea di cinema . È un film gotico e folkloristico, che non fa dello spavento primordiale il suo elemento centrale. La paura nasce dagli ambienti, dalle meravigliose scenografie, dalla incessante colonna sonora e, soprattutto da una regia e una fotografia di palese appartenenza espressionista. Il folklore americano di metà 600 fa da tema centrale alla pellicola, con il dualismo tra repressione religiosa e ricerca dell’indipendenza femminile, che scaturirà solamente nel peccato cristiano. La protagonista si spoglia delle vesti della società cristiana per denudarsi di fronte a, probabilmente, la migliore rappresentazione di un Sabba nella storia del cinema. Il secondo capolavoro di Eggers arriva nel 2019, con The Lighthouse, una meraviglia di due ore, in bianco e nero, girata praticamente in un solo ambiente e con solo due attori a reggere il peso dell’intero film: Willem Defoe e Robert Pattinson, due guardiani di un faro nel 1890, sempre nel New England. Il regista gira un horror psicologico, in cui la repressione sessuale maschile si unisce al complesso edipico, in un turbinio in cui il faro fa da rappresentazione simbolica fallica, unito alla raffigurazione in chiave tardo ottocentesca della mitologia marittima e classica. Da Prometeo che ruba il sole per gli uomini e viene punito con gli uccelli che lo divorano, fino a Proteo che Willem Defoe rappresenta alla perfezione, il film è intriso di aria marinaresca, in una visione che quasi ti permette di respirare l’aria di mare. Imprescindibile. Sua ultima fatica è, invece, The Northman del 2022, un thriller epico, che pone la storia Shakespeariana di Amleto all’interno del folklore e della cultura norrena. Il film è un’epopea visiva che sottolinea come Eggers sia uno dei registi contemporanei più meticolosi nella messa in scena, curata in ogni dettaglio, dal filo d’erba al villaggio nordico. Il regista ritrova i suoi attori feticci Anya Taylor-Joy e Willem Defoe, aggiungendo un fantastico Alexander Skarsgard nei panni di Amleto. Per la terza volta Robert Eggers si dimostra un’artista indissolubilmente legato a doppio filo sia ad una narrazione culturale e del folklore, sia ad un’impostazione che pesca dall’espressionismo tedesco a piene mani. Ne è esempio lampante il suo prossimo film Nosferatu, remake dell’omonima pellicola del ’22 di Marnau, in uscita nel 2024.

Ari Aster: l’elevated horror come psicanalisi

Ari Aster è, forse, il regista, tra i tre, più divisivo sia per la critica che per il pubblico. Anche lui con all’attivo tre lungometraggi (più una serie svariata di cortometraggi), ha individuato uno stile e delle tematiche ben precise. Definito da Martin Scorsese in persona come “una delle più straordinarie nuove voci nel mondo del cinema”, Aster affronta, in tre modi diversi, il tema famigliare con una forte impronta psicanalitica e personale. I tutti e tre i film, si è sempre profondamente analizzato, riportando sé stesso e la sua persona dentro le pellicole. Il suo primo lavoro, Hereditary del 2018, è un film che si fa carico di un lascito e di un’eredità dall’horror americano classico, mettendo in scena un orrore più “semplice” da certi punti di vista, ma molto profondo andando a scavare nei suoi sottotesti. È evidente come il film e il regista stesso debbano tantissimo a Roman Polanski e a film come Rosemary’s Baby, di cui è un omaggio nei toni e in certe scene oniriche. E, di particolare importanza è la prova attoriale di Toni Colette, che regala una Annie straordinaria. Il secondo film di Ari Aster è il suo vero capolavoro. Parliamo di Midsommar del 2019. Un folk horror completamente ambientato alla luce del giorno che fa dell’orrore al sole, la sua forza portante. Non vi è, praticamente, una singola scena buia e Dani, la protagonista interpretata da Florence Pugh, è immersa nei riti pagani di una Svezia in cui non tramonta mai il sole. I riferimenti ad altri film pagani come The Wicker Man di Robin Hardy del ‘73 sono evidenti, così come lo è il debito nei confronti di Polanski anche in questa seconda pellicola. Ari Aster ci parla di lutto e di fine di una relazione, mettendoli a confronto e dicendoci che, in fondo, sono la stessa cosa. Sua fatica più recente e, sicuramente, tra le tre la più divisiva, è Beau ha paura del 2023. Odiato da metà della critica e amato dall’altra parte (noi lo abbiamo adorato, qui la nostra recensione), Beau ha paura è un viaggio onirico e perverso nella mente di uomo con problemi sociali e relazionali. Mettendo a nudo le insicurezze del singolo nei confronti della società e delle comunità, Ari Aster firma un’epopea Freudiana fino al midollo in cui Fleming, Lynch, Hitchcock, le sorelle Wachowski e ancora Polanski convivono all’unisono, si influenzano e si mescolano uniformemente. Ed è giusto che abbia diviso un film del genere, perché è esattamente quello che fanno le grandi opere d’arte.

Elevated Horror: una postilla finale

Questi sono, secondo noi, i tre autori più rappresentativi dell’Elevated Horror che, volenti o nolenti, hanno dato un nome e una tridimensionalità al sottogenere. Ed è da chiarire che non era necessaria una definizione per indicare dei film d’autore. Un film è autoriale quando c’è la mano di un artista dietro, indipendentemente dal genere di appartenenza. Dalla commedia all’animazione, l’autorialità ha sempre scavalcato il concetto stesso di genere, insediandosi in qualsiasi ambito. È pur vero che, d’altro canto, non si era mai verificata una così fitta sequela di titoli così spiccatamente riflessivi e autoriali. Nella storia del cinema sono stati pochi i registi che hanno usato l’horror con questa profondità. Senza citare ancora l’espressionismo tedesco, che faceva del suo essere avanguardia cardine espressivo e trovava nell’orrore e nell’inquietudine la sua dimensione ultima, si può parlare di Roman Polanski, David Cronenberg e David Lynch come autori internazionali o di Dario Argento e Mario Bava nel nostro paese. In ogni caso, i loro film non sono usciti con questa frequenza e difficilmente sarebbe stato possibile inquadrarli in una corrente. Vorremmo aggiungere una postilla finale su due film che, secondo noi, non hanno ricevuto il credito dovuto sia a livello critico che di pubblico. Il primo è It Follows del 2014 di David Robert Mitchell, un regista che si sposterà poi sulla commedia neo-noir con l’ottimo Under the Silver Lake. L’horror riprende le atmosfere adolescenziali anni ’90 (alla Scream, per intenderci) inserendo però un sottotesto che parla di paura del futuro, sesso e HIV tutti metaforicamente rappresentati dalle figure che seguono i protagonisti. L’altro titolo che vogliamo aggiungere è il meraviglioso Men di Alex Garland, autore che già aveva mostrato il suo talento con Ex Machina e Annihilation. Come per gli altri due film, questo terzo affronta il tema del patriarcato, del paternalismo, dell’oggettivizzazione femminile e della continua proliferazione del maschilismo tossico. Un film tanto bello quanto inquietante. Una piccola perla. Quindi, l’Elevated horror è forse una definizione azzardata ma sicuramente qualcosa su cui porre una particolare attenzione critica. Sta proliferando più che mai ed è solo un bene. L’horror è uno dei generi più affascinanti per natura, che tocca corde primordiali dell’animo umano. E farlo con così tanta consapevolezza e autorialità è solo che un gigantesco plus.

Alessandro Libianchi