“Quello che non so di lei”: l’elegia della finzione di Roman Polansky

Foto dell'autore

Di Redazione Metropolitan

Deliziosamente polanskiano per tematiche che ricorrono nella sua intera filmografia – la memoria e la manipolazione a fini propri, il reale fine ultimo della creazione artistica – “Quello che non so di lei” gioca innanzitutto per sottrazione e svelamento immediato dei meccanismi da classico thriller. Cos’è reale, cos’è finzione? E soprattutto, è davvero così importante?

Delphine (Emmanuel Seigner) è un’autrice che ha trovato il successo con un romanzo incentrato sulla vita della madre, morta suicida. Sta vivendo un lungo periodo di crisi creativa, di riflessioni sulla propria condizione di scrittrice e sul proprio lavoro. Ad un incontro con i lettori fa la conoscenza di Elle (Eva Green), figura ubiqua e misteriosa con cui trova immediata affinità. Il rapporto tra le due si fa sempre più fitto, e la forte personalità di Elle prende sempre più potere sulla fragile e confusa Delphine…

“Quello che non si di lei”: la fiction come unico strumento di racconto del reale

Sin dalla sua prima apparizione, all’irreale, noireggiante, metafisica Elle (Eva Green) mancano le stimmate dell’empiricamente misurabile, e il regista non fa nulla per convincerci del contrario. Una riflessione sul potere manipolatorio, proprio e altrui dell’atto creativo che Polansky ci svela brillantemente non ricorrendo, ad un livello narrativo formale, alle stesse pratiche su cui sta ragionando. Poco importa che Elle “esista davvero” in senso lato. La sua attinenza alla figura umana e professionale di Delphine è sensibile, quantificabile, persino carnale in alcuni passaggi. L’oggettività è una costruzione innanzitutto culturale, e la dialettica tra Delphine e la propria controparte Elle è del tutto reale. Preciso alter ego della fragile, dimessa, confusa Delphine, Elle è una ghostwriter pratica e consapevole delle regole del gioco.

Registra “30 ore di intervista ad Ibiza” al vip di turno, politico o uomo di spettacolo, e da quelle ne sviluppa una biografia, una immagine del personaggio, una rappresentazione pubblica del privato. Che differenza sostanziale c’è tra lei e Delphine? Non è un caso che sia chiamata con lo stesso nome dell’autrice del romanzo da cui è tratta l’opera, Delphine de Vigan. Ogni narrattore condivide la stessa maledizione. L’eccezionale successo dell’ultimo romanzo della protagonista le ha portato fama, ricchezza. E un sequela di lettere anonime che le rinfacciano l’aver speculato sulle proprie tragedie famigliari come chiave definitiva di narrazione e successo.

False verità e fiction reali

Di nuovo: cos’è davvero reale e cos’è finzione, proiezione, allegoria della propria stessa esistenza personale e professionale in Elle e nella sua relazione amorosa tragicamente castrata? Nelle colpevolizzanti lettere anonime, nello sventato avvelenamento come processo di crisi e soluzione? La costruzione da thriller psicologico di Polansky e del co-sceneggiatore d’eccezione Oliver Assayas (“Personal Shopper”) restringe gli spazi, strizza l’occhio ai generi, al citazionismo e all’auto-ironia. E getta basi rigorose, eleganti e funzionali ad un discorso che innanzitutto è una valutazione che fa, come già successo in forme diverse, sul proprio ruolo di regista, di narratore di storie e della necessaria ibridazione tra reale e fiction del processo narrativo.

Il processo di risoluzione del blocco delle scrittore di Delphine ha inizio quando si rende conto che la storia da scrivere è quella di Elle. Così intrigante, complessa, dolorosa. Così come dolorosa e pericolosa è la risoluzione del conflitto con Elle, tanto insistente e determinata nel voler convincere l’autrice e mettere finalmente mano al proprio “libro nascosto”, perché “tutti gli scrittori rubano fatti veri”. La finzione e la rappresentazione come forma più onesta ed efficace della comunicazione del se. Esattamente come ha sempre fatto Polansky nella sua ormai sterminata filmografia.

Andrea Avvenengo

Seguici su Google News