“Rapito” di Marco Bellocchio: ecco la recensione del film

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Di Eleonora Ceccarelli

È tra i tre film italiani in concorso a Cannes, l’ultima opera di Marco Bellocchio, che dal più tenue “La conversione” è stata in seguito intitolata lapidariamente “Rapito”. Dopo un anno dall’uscita della serie evento “Esterno Notte”, per cui ha di recente vinto il David di Donatello alla migliore regia, il maestro è tornato a parlare di rapimento. Fabrizio Gifuni compie un rito di passaggio tra i due progetti, da prigioniero a carceriere. Qui interpreta l’inquisitore di Bologna Pier Gaetano Feletti, colui che nel 1858, ha eseguito lo spietato ordine dello Stato Pontificio di strappare il piccolo Edgardo Mortara alla sua numerosa famiglia ebrea.

Di nuovo Bellocchio chiede allo spettatore di schierarsi su un fatto di cronaca e ancora una volta la lucida analisi bellocchiana ha trovato terreno fertile in un film in costume in cui è riconoscibile la firma di un autore che riafferma la sua laicità rigorosamente. Alla sceneggiatura hanno collaborato Susanna Nicchiarelli (“Miss Marx”) e Edoardo Albinati (“La scuola cattolica”).

Dove la fotografia rinascimentale di Francesco di Giacomo regala interni a fil di luce e esterni di nebbia, è la scrittura, ricca di dialoghi cadenzati, incaricata di rilasciare emozioni, a cui danno corpo i grandi interpreti coinvolti. A partire dagli sguardi traslucidi e disperati dei genitori di Edgardo, Barbara Ronchi (Marianna Mortara) e Fausto Russo Alesi (Momolo Mortara), a quello di malata devozione di Edoardo Maltese, che interpreta Edgardo da adulto.

Rapito, il Papa e il bambino

Papa Pio IX (Paolo Pierobon) e Edgardo Mortara (Enea Sala) in una scena del film "Rapito" di Marco Bellocchio
Papa Pio IX (Paolo Pierobon) e Edgardo Mortara (Enea Sala) in una scena del film “Rapito” di Marco Bellocchio

In un’epoca in cui l’Italia ancora non esisteva e la legge dello Stato pontificio coincideva con quella dello Stato civile, un glaciale Papa Pio IX (Paolo Pierobon), si barrica nella sua roccaforte di potere che sta lentamente crollando con l’avanzata dello Stato Sabaudo. Sulla bocca di tutti c’è il caso Mortara. Un bambino ebreo di Bologna è stato battezzato da una domestica di nascosto dalla famiglia e scoperto viene condotto a Roma su una carrozza nera per ricevere un’educazione cattolica tra le altére stanze vaticane.

Il Papa lo prende sotto la sua ala instaurando con lui un rapporto ambiguo padre-figlio. Tra le inquadrature più straordinarie ce n’è una destinata a diventare un quadro eterno nella storia del cinema. In una posa plastica, sul suo trono, l’anziano Papa Pio IX, con un sorriso beffardo, non troppo lontano da quello dei migliori villain, tiene sulle sue ginocchia, disegnando una gabbia con le sue braccia possenti, l’indifeso Edgardo, interpretato dall’esordiente Enea Sala dagli occhi grandi che commuovono.

La sua veste candida, lunga fino alle caviglie, si contamina con le pieghe vermiglie del sontuoso abito del pontefice. Alle loro spalle ci sono diversi cardinali, statue di cera che guardano altrove. Edgardo fa eccezione. il suo sguardo spaurito rivolge un grido di aiuto allo spettatore.

Il caso Mortara da Spielberg a Bellocchio

Da Cannes le prime reazioni al film sembrano concordare su un’atmosfera da grande narrazione popolare che aleggia in “Rapito”. Nel film si respira quell’emozione collettiva che solo un ritratto storico può suscitare. In grado di abbracciare un grande pubblico e allo stesso tempo soddisfare le aspettative di un cinema d’autore.

Un cineasta che ha portato sullo schermo entrambe le dimensioni è Steven Spielberg. Non a caso è stato il primo a interessarsi al caso Mortara. Entrambi i cineasti sono partiti da testi che svisceravano diverse prospettive di questa vicenda di fine ‘800. Ad essere realizzata è stata la versione filmica di Bellocchio a partire dal soggetto di Daniele Scalise, inviata a Spielberg in attesa di un parere sincero.

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Eleonora Ceccarelli