Reboot come scontro generazionale

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Di Redazione Metropolitan

Reboot, soprattutto nel campo della cinematografia, sta fondamentalmente a indicare il nuovo che sostituisce il vecchio. Lo diceva sempre anche Barney Stinson, uno dei protagonisti di How I Met Your Mother: “new is always better” (nuovo è sempre meglio). I Reboot sono stati i grandi protagonisti (e continuano ad esserlo) dell’ultimo periodo cinematografico, soprattutto quando si parla di fantascienza o cinecomics: il reboot di Spiderman, degli X-Men, dei Fantastici 4, dei Power Rangers, di Tomb Raider, nonché l’annunciato Reboot di Blade e il prossimo di Dune. Stesso destino è toccato a iconiche serie Tv: StregheSupercarVisitors, ecc. Alcune sono state operazioni ben riuscite, acclamate dalla critica e benedette dal pubblico, altre dei flop, ma oggi non si vuole dare un giudizio di valore, ma semmai riflettere sul concetto stesso di reboot, di riproposizione del vecchio in chiave nuova, del bisogno di sostituzione.

Photo Credits: pixels.com

Niente di nuovo sul “fronte occidentale”

Il conflitto generazionale non lo abbiamo di certo scoperto noi oggi. Una delle prime “menzioni” al “fenomeno” risalgono a più di 5000 anni fa (3000 a.C.) su di un vaso d’argilla, il quale riportava una critica alla gioventù dell’epoca, definendola immorale. Ancora oggi ci sono fior di anziani che definiscono le generazioni a loro successive con i medesimi termini, eppure sono passati millenni.

Inutile dire che lo scontro generazionale sia percepito come una vera e propria lotta, una battaglia generata da differenti visioni e percezioni del mondo circostante e questo può facilmente invogliare a qualificarlo come qualcosa di negativo, ma in realtà in termini di sviluppo per una civiltà, esso può rivelarsi prezioso. Avete presente On the Road di Jack Kerouac? Un romanzo che divenne uno dei simboli della Beat Generation, ma non solo, un romanzo che si basa sul concetto di crescita attraverso il superamento dei divieti imposti dalla… generazione precedente. In pratica: quello che valeva ieri non sempre vale oggi e non sempre si rivela essere funzionale. Occorre cambiare, crescere, per stare dietro un mondo in continua trasformazione. Questo in fondo è stato il mantra della moderna civiltà occidentale.

E cosa c’entrano i Reboot?

Basta farsi una domanda: Il nuovo è meglio? Riusciremmo a rispondere tutti allo stesso modo? Uno spettatore che oggi, nel 2020, ha più di trent’anni riuscirebbe ad apprezzare la “nuova” trilogia di Spiderman o rimarrebbe indissolubilmente legato a quella di Sam Raimi e Tobey Maguire? In fondo, gusti permettendo, entrambe si possono definire degli ottimi prodotti ed entrambe hanno goduto di un Peter Parker estremamente caratterizzato. E come sarà il nuovo Blade? E se si lavorasse ad un reboot di Xena? O ancora, di Stargate? Ovvio, anzi, inutile dire che ogni cosa andrebbe valutata indipendentemente e il giudizio andrebbe dato al singolo prodotto ma… c’è sempre quel ma: quanto una generazione è pronta a staccarsi dai propri schemi? Dai propri modelli? Tentando di dare una risposta, probabilmente la cosa migliore sarebbe proprio regolarsi in base ai modelli di riferimento, in base alla “coerenza simbolico-culturale”: Tom Holland incarna quello che oggi è chiesto ad un attuale Spiderman, ma anche ad un supereroe in generale, ma non solo, addirittura ad un attore e tutto il cast della nuova trilogia effettivamente è coerente con il tempo corrente; Tobey Maguire, a sua volta, simbolicamente incarnava un certo bisogno di cupezza e introspezione che ha accompagnato la fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Duemila. Idem, anche stavolta, per il cast, il quale rappresentava totem dei tempi che furono.

Ora la domanda da un milione di dollari: è solo business?

Io non credo, o meglio, è anche business, ovvio, a certi livelli non si costruiscono prodotti del genere senza volerci guadagnare, è così che va il mondo. Quello che dico è che al cambiare dei codici culturali viene da sé la necessità di rinnovare quelli comunicativi (in questo caso cinematografici). Cambiano poi anche i temi di importanza primaria. Se negli anni Ottanta, ad esempio, determinati argomenti erano all’ordine del giorno, oggi lo sono altri. Lo vediamo ad esempio con IT: la versione “aggiornata” di Muschietti riflette molto di più su razzismo e omofobia, perché “oggi” sono argomenti tornati prepotentemente all’ordine del giorno.

Ma allora, e questa è la domanda da due milioni di dollari, perché non fare direttamente qualcosa di nuovo? Di cosa abbiamo parlato qualche riga fa? Di “scontro”. La “ripetizione” produce automaticamente contrasto, dibattito e anche se in negativo, soprattutto negli affari vale sempre l’insegnamento del buon vecchio Oscar Wilde: “nel bene o nel male, purché se ne parli”. Ecco! Questa è probabilmente la vera scelta di business. Ovvio, non possiamo escludere a priori le scelte artistiche e quelli che possono essere “genuini” desideri di rinnovamento o volontà di provare a superare i propri maestri, ma vero è che se si vuole generare contrasto, quindi discussione, quindi visibilità, è più facile partire dal conosciuto, soprattutto quando questo conosciuto è anche “ri-conosciuto”.

Cosa è meglio?

Dipende, questo è il punto cruciale. Lo scontro ci infastidisce? Forse perché lo percepiamo come tale. Iniziamo allora a viverlo come “incontro”, come confronto e forse ognuno riuscirà a vivere bene con quello che la propria generazione gli ha donato, senza dover manifestare sempre superiorità o inferiorità e magari, chissà, riuscirà a guardare dietro o avanti a sé senza più timore. Non è più il tempo di Crono che divora i propri figli per paura di essere spodestato, ma questa è una mia opinione.

Dario Bettati

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