La serie Apple TV Roar, tratta dalla raccolta di racconti omonima di Cecelia Ahern e prodotta da Nicole Kidman, è un nuovo caso di storytelling del femminismo? Dalla mia visione e conseguente analisi, si potrebbe dire senza alcun dubbio di sì.

Lo sceneggiato antologico ideato da Liz Flahive e Carly Mensch (Glow), composto da 8 episodi, risulta essere un Black Mirror senza tecnologia ma con un sacco di tematiche femministe e femminili.
Ogni storia, infatti, racconta un tema diverso che qualsiasi donna nella vita reale può aver vissuto: il razzismo; il rapporto madre-figlia; la gravidanza e la depressione post parto; il culto della bellezza; la relazione tossica con un compagno narcisista; gli incel; la monotonia di un matrimonio e la necessità di comunicare; e infine, l’emancipazione femminile, la summa di tutti i valori femministi.
Ognuna di queste esperienze è tuttavia amplificata ed esagerata: tramite una messa in scena grottesca e distopica vengono rappresentate le paure, le angosce e le emozioni di tutte le protagoniste.

Le personagge di Roar, diverse tra loro per background e status sociale, hanno in comune, oltre appunto all’essere di genere femminile, il fatto che in ogni episodio ci si riferisca a loro soltanto con il nome proprio.
Non conosciamo infatti il cognome di nessuna di esse: sono a tutti gli effetti anonime, alcune tra tante, a dimostrazione del fatto che le loro non sono esperienze isolate ma all’ordine del giorno.

Roar è il ruggito di ogni donna contro i soprusi della società; il grido di chi non vuole più stare in silenzio ma pretende che la propria voce venga ascoltata.

Chiara Cozzi