The Alpinist: l’irrisolvibile tensione all’infinito

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Di Redazione Metropolitan

Vita (brevissima) e morte di Marc André-Leclerc, che questo “The Alpinist” non avrebbe nemmeno avuto particolare desiderio di farlo. Quello che voleva davvero fare era girare il mondo e sfidare il cielo a mani nude. Da un desiderio di narrazione degli alpinisti Peter Mortimer e Nick Rosen.

Se esiste una pratica, una disciplina, un voto esistenziale che non sia ancora passato dall’imbuto e del megafono comunicativo del mondo social, questo non è certo l’alpinismo. Sepolta da decenni con tutti gli onori la poetica dell’alpinismo eroico, è giunta quella dell’alpinismo, nel senso più alto del termine, performativo.

The Alpinist: la felicità è già tutta davanti agli occhi

La frontiera rimane idealmente infinita, ma anche quest’utopia di Galeano ha trovato nel mondo e nel mercato social la sua consacrazione commerciale. L’eccezionalità del resto è sempre un ottimo bene di consumo che si vende da solo, e i migliori interpreti della disciplina si sono visti nel giro di pochi anni eleggere a personaggi di rilievo esattamente come i nomi più celebri degli sport di massa. Milioni di seguaci social e sponsorizzazioni a sei zeri, ideali ambasciatori del proprio sport e di tutto il mercato che ne consegue. Quasi tutti i migliori alpinisti dell’ultimo decennio sono, di fatto, delle rockstar. Quasi tutti.

Perché nel 2013 uno sconosciuto canadese 23enne schianta il record della superstar Alex Honnold di arrampicata libera in solitaria sul Grand Wall, parete di granito di 303 metri nella British Columbia. E di fatto, nel circuito mondiale dell’alpinismo, nessuno sa chi diavolo sia. Poco importa che Honnold, punto sul vivo, corra in Canada per ribadire la propria supremazia e ci riesca con un nuovo, incredibile tempo. Esiste qualcuno, fuori dai radar convenzionali, che sa fare cose incredibili. E’ questo che accende una lampadina nella testa di Peter Mortimer e Nick Rosen. Loro, appassionati scalatori, quel qualcuno devono sapere chi sia.

Sky is the limit

Volano a Squamish, British Columbia, perché è lì che vive Marc André Leclerc, ragazzone naif che delle attenzioni altrui, che non siano quelle dei suoi cari, non sa che farsene. E che davanti alla telecamera non riesce a stare. Non sa nemmeno che farsene di una casa, in effetti. Vive con la fidanzata in una tenda, dove ha tutto l’occorrente per vivere una vita piena. Un amore e vette da conquistare. Nel bel mezzo della produzione del documentario, sparisce. Viene segnalato ad Alberta, in Scozia, in Patagonia. Ovunque ci siano una sfida da affrontare in verticale. E da solo. Perché sennò la magia non funziona. Puro e sfuggente, è il protagonista di un modo di fare documentario che rende “The Alpinist” raro e prezioso. Fuori da dinamiche performative comunque straordinarie e dai facili giochini dell’”uomo dietro l’atleta”. Perché in Marc André Leclerc, l’uomo è l’atleta e viceversa.

Mosca bianchissima capace di assoggettare alla propria peculiare visione del mondo e della vita una narrazione che, per ammissione dei suoi stessi autori, non osava augurarsi un figura tanto rara ed eccezionale. Capace di comunicare con gli occhi e con i gesti ben prima che con le parole di aver trovato una collocazione nel mondo per cui il gioco vale senza dubbio la candela. Quello che ci fa capire Marc è che la via zen alla felicità, ottenuta con dedizione, coraggio, ossa rotte e sacrifici esclusivamente personali, non si discute, si vive e basta. La sostanza che non può che diventare forma. Perché se l’atto fisico può e deve essere poesia, la meticolosa e liquida danza di Marc Andrè tra strapiombi e seracchi è una forma di comunicazione ipnotica e pacificatrice, così come è giocoforza pacificatrice la dittatura del gesto, che richiede tutto per se, qui e adesso, uomo e montagna. Tutto il resto, qualsiasi cosa sia, sarà.

Andrea Avvenengo

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