The Hate U Give Little Infants Fucks Everybody: THUG LIFE. Se vogliamo riassumere il senso del film di George Tillman Jr. e dell’intero movimento civile che attraversa gli Stati Uniti, non può essere che questo. L’odio ingiustificato e razzista dentro cui cresce e si sviluppa l’identità di intere generazioni di afroamericani è il veleno che uccide l’intera società statunitense, nessuno escluso. Che è poi la traduzione, eufemistica, del titolo del film e della frase che apre questo pezzo.
Bambini nutriti dal rifiuto e dall’idea di non essere e non valere abbastanza, diventano adulti sì arrabbiati, ma soprattutto incompresi, dipinti a prescindere come criminali, thugs (appunto). Senza distinzioni e senza vere ragioni, un uomo nero in strada è considerato una minaccia tale da rendere necessaria la forza. Da qui nasce la definizione di police brutality.
È questo ciò a cui assistiamo purtroppo attraverso i telegiornali e i film si dimostra, principalmente, come una reazione dettata da paure profonde e irrazionali, oltre che di un addestramento sbagliato e tendenzioso.
“The Hate U Give”, cinema della realtà
George Tillman Jr. in The Hate U Give – Il coraggio della verità (2018) racconta molto bene sia i momenti più tragici di queste violenze, spesso terminate in tragiche morti, sia la lotta e l’onda di rabbia impotente che ne segue, per chi resta. Protagonista è la giovane Amandla Stenberg (Starr), che vede morire accanto a sé un caro amico, durante un posto di blocco della polizia.
Nello spazio claustrofobico dell’abitacolo vediamo i due ragazzi trasalire, già certi che qualcosa potrebbe andare storto. Terrorizzata lei, più spavaldo lui, Khalil (Algee Smith), cerca di non dare a vedere la sua preoccupazione e, incautamente, si sporge a prendere qualcosa sul sedile. È una spazzola, ma i poliziotti non hanno interesse a capire prima di sparare.
Così muore Khalil, per mano di uomini in divisa che si ergono a giudice, giuria e boia delle sue presunte colpe e intenzioni. Come lui muoiono, ogni giorno anche dopo George Floyd, ancora troppi uomini afroamericani. La scena della morte di Khalil, inoltre per quanto essenziale, è solo all’inizio della storia. Tanto il film quanto il libro di Angie Thomas da cui è tratto, si focalizzano infatti sulla successiva reazione di Starr.
Figlia di un militante, Starr conosce a memoria le dieci regole del Black Panther Party e ne fa strumento di vita. Vive ancora nel vecchio quartiere dei genitori però studia in una scuola prestigiosa, cercando un futuro diverso e più ricco di opportunità. Come spesso accade in questi casi, il pubblico è messo di fronte a due differenti versioni della stessa Starr, una naturale e una mitigata per l’occhio e il giudizio dei bianchi.
Il racconto di chi resta
È il cosiddetto white gaze, che nell’ambito degli African American Studies fa proprio riferimento alla pressione sociale che ricade sugli afroamericani nella società statunitense. Quando la morte di Khalil distrugge il mondo di Starr, questa distinzione improvvisamente non ha più importanza. L’unica cosa che conta è far sentire la propria voce e ottenere giustizia. È così che assistiamo alla rappresentazione della lotta per le strade.
Quella stessa lotta dall’anima femminile che ha dato vita anni fa a Black Lives Matter. La lotta delle donne stanche di vedere i loro fratelli, i loro mariti, i loro cari uccisi solo perché in strada nel posto sbagliato al momento sbagliato. Le stesse immagini impresse da George Tillman Jr le rivediamo oggi nei notiziari e sui social network, a dimostrazione che il black cinema ha solo colto qualcosa che era già nell’aria da tempo. Qualcosa a cui prima non potevamo o non volevamo dare attenzione, ma che adesso è impossibile ignorare.
Articolo di Valeria Verbaro