The Whale, la recensione: il corpo è un campo di battaglia

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Di Arianna

The Whale è il nuovo film in uscita in tutti i cinema il 23 febbraio, e già tutti ne parlano. Brendan Fraser è stato nominato agli Oscar, ha travolto Venezia quando è stato presentato ufficialmente. Vederlo per la prima volta è un pugno allo stomaco, e questa è la nostra recensione. Come in tutti i film di Aronofsky, il corpo è il nostro campo di battaglia.

The Whale, la recensione: Aronofsky parla di binge eating e obesità senza inganno

The Whale recensione
The Whale

Il corpo è un campo di battaglia, e Darren Aronofsky l’ha sempre utilizzato per comprendere come l’essere umano lo sperimenta nei suoi territori più bui. Conosciamo tutti i posti più oscuri dove condurlo. E non percorrerle, alla fine, è solo una scelta. The Whale parla di questa scelta, e il protagonista sceglie di “lasciarsi andare”, e dopo un doloroso strappo, fagocita sé stesso nell’obesità e nel binge eating. Ma come tutti i disturbi alimentari, è più di questo. È un dilagarsi. E la ricerca di sé in tutta quella carne è complesso.

Darren Aronofsky ci regala The Whale, un adattamento della pièce teatrale di Samuel D. Hunter, che porta la narrazione verso la brusca strada del dramma. Entriamo sin da subito in questa piccola stanza claustrofobica, che sarà la scena che ritroveremo per tutto il film. Una casa, quella di Charlie. Al suo interno i personaggi che entrano ed escono da una porta mai chiusa per una settimana nella casa (che è la vita) di Charlie. Una vita “disgustosa”, un essere “disgustoso”, in una stanza piena di “scusami” ripetuti ad ogni battuta del protagonista ogni volta che sperimenta l’altro. Ma “scusami” di cosa, si ripete lo spettatore. Forse, per essere ancora in vita. Charlie infatti è vivo per miracolo. Nel momento stesso in cui lo si guarda, lo spettatore sa già che è spacciato, non c’è più nulla da fare, eppure è il personaggio più tremendamente ancorato alla vita tra tutti. E scopriamo scena dopo scena quanto il corpo sia oggetto, sia campo di battaglia. E non c’è nulla di patetico in questa rappresentazione. Aronofsky, estremamente posato, abbandonando i suoi virtuosismi di Requiem For A Dream e Il Cigno Nero, vuole restituire la verità. È ossessionato dalla sincerità.

The Whale recensione: non c’è pena o politically correct

Il ritorno di Brendan Fraser non poteva essere più bello di così, lontano dal cinema per così tanti anni, The Whale potrebbe (dovrebbe) regalargli un Oscar meritatissimo. Una fenomenale Sadie Sink, e una perfetta Hong Chau. Così reali, così estremi. Uscire dal cinema senza aver pianto è impossibile.

Di solito queste storie vengono sempre rese con quel senso di pena e politically correct, che lascia un po’ di plasticità in bocca. Qui questo non accade. I personaggi sono onesti. Hanno compiuto errori, e quegli errori hanno fatto male ad altre persone. Che sono incazzate col mondo e che continuano a far male ad altre persone. Effetto domino. Perché è così che funziona. Ma in tutto questo terribile quadro, non riusciamo a non pensare a quanta bellezza ci sia nel mondo (e un po’ mi lascio trasportare da evocazioni di American Beauty). Charlie vive i suoi ultimi giorni per quest’ossessione: per il bello che c’è nelle persone. In sua figlia, in Liz, nella sua ex moglie, in Alan, nei suoi alunni. L’umanità si salverà solo quando sarà onesta con se stessa, e smetterà di aver paura di essere “debole” perché pensa che il mondo sia nonostante tutto un posto meraviglioso. È cool pensare che sia tutto da buttare, è da deboli pensare che ci sia posto nel mondo per la bellezza. E ripensando a The Whale mi viene automatico pensare che se devo essere ritenuta “debole” perché sono ancora convinta che sia tutto tremendamente meraviglioso, allora voglio continuare ad essere la più debole di tutti.

Arianna Lomuscio

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