È il 1974 e, sul set de Il Padrino Parte II, un giovane Robert de Niro ha appena finito di leggere Raging Bull: My Story, il libro autobiografico di Jake LaMotta. Parallelamente, un altrettanto giovane Martin Scorsese sta girando il suo quarto lungometraggio, Alice non abita più qui. De Niro rimane folgorato dall’iconica figura di LaMotta. Corre dal regista e amico: vuole girare il film sul pugile di origini italiane. Il film vedrà però la luce solamente nel 1980, quando Scorsese, quasi morto di overdose, trova nel cinema e nella storia di Jake LaMotta la sua ancora di salvataggio. Perché il capolavoro che idealmente chiude il periodo della New Hollywood, oltre che un meraviglioso biopic sportivo, è stata anche l’occasione per Scorsese di mettere a nudo sé stesso. di riflettere sulla sua figura e sul suo futuro come regista. Il cinema americano sta cambiando profondamente: la libertà data ai registi dai produttori sta per finire. I film a basso budget campioni d’incassi stanno per lasciare il posto alle saghe e ai grandi blockbuster del cinema anni Ottanta. E quale migliore occasione per parlare di Toro Scatenato se non quando viene riproposto al cinema nella sua versione restaurata.

Toro Scatenato: la chiusura di un movimento

Il racconto esplicito di Toro Scatenato è piuttosto semplice. Jake LaMotta è un pugile proveniente dalla zona italo-americana di New York. Di animo sfrontato e ribelle, si fa un nome nel mondo della boxe, attirando le attenzioni della mafia. Aiutato dal fratello Joey, suo manager (interpretato da uno straordinario Joe Pesci al suo primo ruolo di rilievo), diventa uno dei contendenti al titolo di campione mondiale dei pesi medi. Ma l’ostacolo da superare è proprio quella mafia che, vedendo in lui una fonte di guadagno sicuro, vuole truccare degli incontri per permettergli di sfidare il detentore del titolo. Si vedrà costretto ad accettare, incrinando per sempre i rapporti con il fratello. Parallelamente, Jake vive una vita dura a causa del suo carattere ruvido e altero. Lascerà la moglie per Vicky, una giovane donna che non farà che aumentare le sue paranoie e i suoi attacchi di gelosia. Il film si chiude Vent’anni dopo, con un LaMotta sovrappeso che sbanca il lunario facendo il comico, ormai abbandonato da tutti. Come detto, la trama è semplice. È una storia di successo, di caduta e di rassegnazione. Il biopic sportivo di un grande atleta che non ha mai saputo gestire la sua figura e, soprattutto, il suo carattere. Il suo essere burbero e violento gli porterà successo nella boxe, ma lo condannerà alla solitudine e alla malinconia. Emblematico, per capire esattamente la ruvidezza di Jake LaMotta, fu il momento in cui il vero pugile vide per la prima volta il film. seduto accanto a Vicky, sua ex moglie, le chiese: “ero veramente così?” “eri peggio”.

Scorsese con Toro Scatenato va a chiudere uno dei periodi più importanti della storia del cinema. La Nuova Hollywood nacque da diversi terremoti. Da quello produttivo del cinema statunitense, ormai superato dai successi e dalle correnti europee. Ma, soprattutto, dal terremoto sociale americano. A partire dalla guerra del Vietnam, ferita non rimarginabile per il tessuto sociale a stelle e strisce. Fino alla nascita dei moti giovanili di contestazione e controcultura. I giovani cineasti si riappropriano di Hollywood e usano il cinema come veicolo per parlare di un disagio sociale ormai dilagante, che era sempre stato nascosto sotto il tappeto del consumismo. E Scorsese è stato uno delle figure principale di questo decennio. Da Mean Street a Taxi Driver, si è fatto artefice e bandiera del movimento. E con Toro Scatenato affronta ancora una volta gli argomenti cardine del periodo: la solitudine, l’inquietudine e il disagio dell’uomo specchio del disagio sociale. Jake è una persona fondamentalmente sola, che vive nella gabbia delle proprie insicurezze e che trova sfogo solamente nella violenza. Non solo sportiva, ma anche personale e familiare. Riflesso di un periodo storico che proprio nella brutalità e nel malessere generazionale trova la sua definizione. Jake rappresenta il cittadino americano degli anni Settanta. Sfiduciato, abbandonato ma in fondo artefice del proprio niveau de vie. Non accetta aiuti e non accetta la sconfitta. L’impossibilità del controllo è la fonte del proprio sconforto. Proprio come per lo statunitense lo è il rendersi conto dell’incertezza del futuro, segnato dalla guerra fredda e dalla crisi economica ed energetica dei settanta. E, allo stesso tempo, Scorsese parla di sé stesso. Come in ogni suo lungometraggio, Martin inserisce il proprio Io nei suoi protagonisti. Appena uscito da una forte dipendenza dalle droghe, il regista si riflette in Jake. Nel suo combattere. Nel suo prendere a pugni gli altri e la vita. Nel suo colpire l’avversario sul ring rivede il suo colpire Hollywood. Il ring diventa allegoria della vita e dell’autorialità riconquistata a Los Angeles.

Round tre

Scorsese regala al mondo un assoluto capolavoro che sintetizza tutti gli elementi della sua visione di cinema. A partire dai messaggi che la stessa messa in scena racconta. È possibile notare come, ogni incontro degli otto che ci vengono mostrati nella pellicola, sia la narrazione parallela dell’evoluzione di Jake. I ring stessi cambiano di grandezza ogni scontro che passa per mostrare lo stato mentale del protagonista che cambia. Il terzo è girato con una forte distorsione di calore, ad indicare il sudore e la fatica del protagonista dentro e fuori il quadrato. E ancora, il montaggio di Thelma Schoonmaker è straordinario. Insieme a Scorsese, scegli di non nascondere i tagli. Si passa dai momenti di vita quotidiana al ring in modo brusco, senza continuità. A ricordarci come ogni pugno preso sul quadrato è un pugno preso nella vita. Effetto Kulesov e montaggio connotativo di Ejzenstejn nella sua espressione più cult. Ed altro elemento emblematico di composizione, è l’unica sequenza a colori del film. In questa parte, assistiamo alle scene di vita quotidiana di Jake in rapida successione. Il colore è fondamentale: definisce quella sezione di vita felice che LaMotta ha buttato via. Quella parte di vita che solamente lui ha distrutto. Una vita in cui il più grande nemico non è stato quello sul ring ma quello nello specchio. Ed infatti, il momento più importante e chiarificatore del film arriva nel finale. Un Jake ormai avanti con l’età e sovrappeso (ricordiamo che de Niro ingrassò quasi 30 chili per interpretare il LaMotta anziano) parla con il suo riflesso. Qui Scorsese ha una delle idee più brillanti della storia del cinema. Non scrive insieme a Schrader un monologo inedito, ma fa recitare a de Niro il monologo di Marlon Brando in Fronte dal Porto, film capolavoro degli anni Cinquanta di Kazan. Testualmente recita “I could be a contender” (potevo essere qualcuno, ero un combattente nato). E se in Fronte dal Porto il personaggio di Brando, Terry, parla con il fratello e può accusarlo del suo fallimento, qui Jake LaMotta non può incolpare nessuno. È davanti ad uno specchio e dialoga con l’unico artefice di quel destino nefasto. Lui stesso. Allo stesso tempo, Scorsese effettua una manovra meta cinematografica meravigliosa. Esprime il suo cinema con uno sguardo al passato, verso i maestri venuti prima di lui, come Elia Kuzan. Ma tutto con uno occhio rivolto al futuro del mezzo. In una sorta di passaggio di consegne, omaggia Marlon Brando, eleggendo Robert de Niro come l’unico che può cogliere la sua eredità artistica. Eleva de Niro come prossimo gigante del cinema americano, in continuità con Brando. In sostanza, questi sono alcuni dei motivi per cui non potete perdervi Toro Scatenato nelle sale l’8,9 e 10 maggio. Il film co-scritto da Paul Schrader e Martin Scorsese (che già avevano collaborato in Taxi Driver) è pura settima arte. Una favola e un racconto epico di una scalata verso il successo. Ma sempre con piedi saldamente a terra.

Alessandro Libianchi

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