Un esperimento sociale sui bambini della Groenlandia

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Di Lorenzo Spizzirri

“Non possiamo cambiare ciò che è successo, ma possiamo assumerci la responsabilità e scusarci con coloro di cui avremmo dovuto prenderci cura, ma non ci siamo riusciti”. È con queste parole che il primo ministro della Danimarca si è scusato in Parlamento con alcuni abitanti della Groenlandia, sottoposti ad un esperimento di cui ancora oggi portano i segni.

Dopo la seconda guerra mondiale, la Groenlandia era rimasta una colonia del regno di Danimarca. Visto il basso grado di crescita dell’isola, si pensò a vari modi per far si che la Groenlandia riuscisse a svilupparsi dal punto di vista economico e sociale.

Tra le varie proposte, una fu presa seriamente in considerazione, al punto da essere messa in pratica. La proposta – che sarà successivamente chiamata laconicamente “l’esperimento” nei documenti ufficiali – consisteva nel tentativo di creare dal nulla una nuova elitè groenlandese, composta da bambini inuit portati a vivere in Danimarca e affidati a famiglie danesi, educati nelle scuole dello stato affinché ricevessero una preparazione adeguata a guidare la Groenlandia sulla strada della modernizzazione. L’idea di fondo era di far si che i groenlandesi assimilassero lo stile di vita e il modello di sviluppo danese, ritenuto più avanzato, senza curarsi delle tradizioni e della cultura dei bambini reclutati per l’esperimento.

I bambini protagonisti dell’esperimento, fotografati in Groenlandia (foto via BBC.com)

L’esperimento, ottenuta l’approvazione, ebbe inizio nel 1951. Inizialmente, i bambini dovevano essere selezionati in base a criteri ben precisi: dovevano essere orfani, avere circa sei anni di età e non avere malattie fisiche o mentali. La ricerca dei bambini da sottoporre all’esperimento venne affidata ai parroci presenti in Groenlandia: i religiosi, tuttavia, non riuscirono a trovare tutti i bambini richiesti e che rispettassero i criteri dell’esperimento, pertanto ne vennero inseriti nel programma anche altri, le cui famiglie vennero convinte a separarsi dai propri figli con la promessa di una vita migliore in Danimarca.

Helene Thiesen, una delle bambine sottoposte all’esperimento, ricorda in un’intensa intervista alla BBC il momento in cui vennero a casa sua gli uomini del governo per convincere la madre ad affidar loro la figlia:

“Avevano un interprete con loro e mia sorella maggiore e ho pensato: cosa ci fanno qui? Eravamo molto curiosi. Ci è stato detto di uscire mentre la mamma parlava con loro.

Hanno chiesto a mia madre se sarebbe stata disposta a mandarmi in Danimarca. Avrei imparato a parlare danese e avrei ricevuto una buona istruzione – hanno detto che era una grande opportunità per me.

Mia madre ha detto loro due volte ‘No’. Ma hanno continuato a spingerla e hanno detto: ‘pensiamo che dovresti mandare Helene in Danimarca, è solo per sei mesi. E lei avrà la possibilità di un futuro radioso, quindi pensiamo dovresti lasciarla andare’ ”. Alla fine, la madre si convinse.

Nel maggio del 1951 i 22 bambini inuit scelti per l’esperimento salparono dal porto di Nuuk, capitale della Groenlandia, alla volta di Copenaghen. Una volta giunti in Danimarca, i bambini (tredici maschi e nove femmine) vennero portati nel “campo estivo” di Fedgaarden, dove avrebbero trascorso l’estate in quarantena per il timore che fossero portatori di malattie infettive. Nel campo, gestito da Save the Children e Dalla Croce Rossa danese, venne a far visita ai bambini anche la Regina Ingrid di Danimarca, a riprova del fatto che l’esperimento aveva ricevuto il benestare del potere danese.

Dopo la fine della quarantena, i bambini vennero affidati ad alcune famiglie precedentemente selezionate, allo scopo di farli inserire appieno nello stile di vita danese. I bambini iniziarono quindi i loro studi, frequentando le scuole danesi ed imparando la lingua. Dopo un anno e mezzo, la prima parte dell’esperimento venne dichiarata conclusa, e sedici dei ventidue bambini furono inviati nuovamente in Groenlandia, mentre i sei rimasti furono adottati ufficialmente da altrettante famiglie in Danimarca.

Al loro rientro in Groenlandia, però, ai bambini non fu permesso di ritornare a vivere presso le proprie famiglie. Per loro, la Croce Rossa Danese aveva costruito un orfanotrofio in cui vivere. La motivazione ufficiale fu che i bambini, dopo aver vissuto nelle case di famiglie danesi benestanti, non sarebbero potuti tornare presso le proprie famiglie, in condizioni peggiori. In realtà, la segregazione era la seconda parte dell’esperimento, necessaria a far si che i bambini non re-assimilassero la lingua inuit e la cultura groenlandese, vanificando così l’esperimento.

Tutto questo ebbe conseguenza drammatiche per i bambini. In Danimarca avevano disimparato il Kalaallisut (la lingua degli inuit della Groenlandia), e quando tornarono non furono più in grado di comunicare con le proprie famiglie.

“Quando la nave attraccò a Nuuk mi precipitai tra le braccia di mia madre. Parlavo e parlavo di tutto ciò che avevo visto. Ma lei non rispondeva. La guardai confusa. Dopo un po’ disse qualcosa ma non riuscivo a capire cosa stesse dicendo. Non una parola. Ho pensato: «Questo è terribile. Non posso più parlare con mia madre». Parlavamo due lingue diverse”. In queste parole della Thiesen è racchiuso tutto il senso del fallimento di questa sperimentazione

Durante tutto il tempo trascorso in orfanotrofio, ai bambini venne proibito di imparare e praticare nuovamente la lingua inuit, e ai dipendenti groenlandesi della struttura fu impedito di insegnarla loro. I bambini dovevano parlare esclusivamente danese, essendo destinati ad essere la nuova elitè della Groenlandia.

L’esperimento si concluse definitivamente nel 1960. I bambini non divennero la nuova elitè alla guida della Groenlandia ma, al contrario, vennero completamente emarginati nella loro isola proprio a causa di quanto subìto. Parte di loro fu afflitta da problemi psichiatrici, abuso di alcol e tentativi di suicidio nel corso delle loro vite. La metà dei bambini sottoposti all’esperimento è morta subito dopo l’adolescenza, schiacciata dal senso di smarrimento in cui erano precipitati dopo l’esperimento. Non più inuit, non completamente danesi, separati di fatto e impossibilitati a comunicare con le proprie famiglie.

La storia incredibile di questo esperimento venne fuori solo nel 1996, grazie all’opera di uno scrittore che trovò la documentazione sull’esperimento negli Archivi di stato danesi. La croce Rossa scrisse una lettera di scuse ad Helene Thiesen, rammaricandosi di aver preso parte a quell’esperimento. Save The Children fece altrettanto, scusandosi con i sopravvissuti.

“Mi mancava la mia famiglia, la lingua, la cultura. Tutto questo non ho avuto durante la mia infanzia”, ha raccontato Kristine Heinesen, oggi 76enne, una delle ultime rimaste ancora in vita.

Gli ultimi sei sopravvissuti all’esperimento hanno ricevuto le scuse ufficiali da parte del Primo Ministro della Danimarca, Mette Frederiksen, in una cerimonia tenutasi questa primavera alla presenza del Primo Ministro della Groenlandia. La Danimarca ha poi deciso di offrire un risarcimento di 38.000 euro ad ognuno dei sei sopravvissuti. Un ben misero prezzo per ventidue vite distrutte.