Il maestoso fiume Cahulawassee, il più grande dell’intera zona degli Appalachi, ha i giorni contati. L’intera area a breve verrà completamente sommersa in seguito alla costruzione di un’enorme diga. Quattro amici di Atlanta decidono così di passare un weekend tra le sue correnti, per quella che sarà l’ultima traversata in canoa della sua storia.
Dietro a un piccolo compenso convincono due locali a trasportare le loro auto più a valle, in corrispondenza del termine del loro viaggio. La discesa lungo le rapide si rivelerà presto molto più di un’avventura: gli hillbillies locali si dimostrano tutt’altro che felici rispetto a quella che percepiscono come un’invasione di territorio e le conseguenze raggiungeranno livelli sempre più estremi.
“Un tranquillo weekend di paura”: un nuovo viaggio agli inferi
Tratto dal romanzo “Dove porta il fiume” di James Dickey, che ha collaborato alla sceneggiatura e interpretato lo sceriffo nelle battute finali, “Un tranquillo weekend di paura” è una di quelle pellicole che, come si suol dire, hanno fatto la storia. Ha di fatto introdotto un tema, quello della dicotomia tra civiltà e primitivismo, che sino a quel momento, nel 1972, era decisamente poco affrontato. Il film di John Boorman aprirà la porta, negli anni successivi, ad una grande quantità di epigoni. Tra new horror e cinema di genere italiano, in molti scandaglieranno il tema con altre intenzioni e risultati.
Il regista, del resto, il piacere di maneggiare materiale impegnativo l’aveva già dimostrato due anni prima. E con che esiti: la commedia “Leone l’ultimo” fu capace di aggiudicarsi una Palma d’Oro a Cannes. L’inferno minerale e vegetale in cui Dickey ha catapultato i suoi quattro personaggi ha un potere narrativo quando cinematografico ragguardevole e, piuttosto che mordere il freno, Boorman spinge a tutto vapore.
Cuore di tenebra
Dopo un breve quanto significativo prologo alla vicenda, Boorman e Dickey spingono con irruenza i suoi quattro protagonisti in un cuore di tenebra secolare, una sacca di primitivismo rurale auto-rigenerante e ci fanno vedere l’effetto che fa. Ovvia e inevitabile menzione per l’iniziale e meravigliosa scena cult dello scambio musicale tra la chitarra di Drew e il banjo del ragazzino. E’ anche l’ultimo momento di tutta la pellicola in cui un campo comune di comunicazione sembra possibile, un tangibile ponte tra due irrazionalità che per qualche istante convergono. Un’avvicinamento graduale e misurato al linguaggio dell’inconscio che si trasforma presto in una caduta a rotta di collo.
Perchè la fine della musica corrisponderà alla fine della magia e di qualsiasi tipo di rapporto di scambio. Da quel momento in poi sarà darwinismo sociale portato alle sue estremo conseguenze. Nella splendida fotografia di Vimos Zsigmond gli Appalachi georgiani diventano l’ideale, meraviglioso proscenio di una immaginifica messa alla prova del contratto sociale rousseauiano. Anche davanti al definitivo tracollo della loro idea di immersione nella natura, Drew (Ronny Cox) sarà restio ad abbandonare le convenzioni minime del vivere civile. Non è quindi forse un caso che, travolto dalla piega degli eventi, sia il primo ad andare incontro alla morte. Saranno poi Ed (John Voight) e Bobby (Ned Bettie) a salutarne i resti malconci in una dolorosa, grottesca elegia funebre tra le rapide del fiume, nell’ennesima rivendicazione di una ritualità culturale che sembra già diventare altro.
Vincitori o vinti?
Il più adattabile non è certo quello che ne ha più l’apparenza. Boorman infatti metterà il maschio alpha Burt Reynolds, all’epoca esemplare massimo nel campo della virilità, nella condizione di vittima passiva degli eventi per più di metà film. Sarà il più cauto e riflessivo Ed a ricondurre in porto quel granello di civiltà rimasta alla mercè della natura e dei suoi figli degeneri.
Una violenza primitiva che viene lasciata dispiegarsi in ogni sua forma. Mai prima di allora ad una violenza carnale, oltretutto omosessuale, era stato dato così tanto risalto nel peso narrativo complessivo di una pellicola. Un livore e una brutalità narrativa non finalizzate a dare risposte quanto a portare al limite una sorta di verifica antropologica e servirla al pubblico. La pellicola scatenerà non poche polemiche per i suoi tratti più controversi e allo stesso tempo otterà grandi riscontri di pubblico e tre nomination agli Oscar, cinque ai Golden Globe.
Andrea Avvenengo
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