Domenica di sole in Laguna, scenario perfetto per la presentazione del film di Emanuele Crialese L’immensità, in concorso alla Mostra del Cinema.
Il film con cui il regista romano arriva a Venezia è la storia di una bambina che si sente un bambino, ovvero la sua storia raccontata in un momento in cui ha finalmente sentito di essere abbastanza pronto per raccontarla, e con un vocabolario che ha costruito ad hoc durante tutti questi anni.
Emanuele Crialese: «É un film sulla famiglia e sulla memoria»
L’immensità è un film a cui Crialese è arrivato passando attraverso le sue storie cinematografiche precedenti e quella sua personale, più intima. Il regista ha lavorato sulla sua autobiografia e sulla memoria, andando a pescare tra ricordi e sensazioni passate. Tuttavia, la chiave adottata non è autoreferenziale, ma universale. Egli ci parla di una migrazione di un’anima, un movimento che tutti facciamo, da uno stato all’altro. La trasformazione, che qui interessa il genere, in realtà ci parla di molto di più.
Come ha notato la sceneggiatrice Francesca Manieri, la contemporaneità e l’innovazione – ma anche, se vogliamo, la politicità – di questo racconto stanno nell’affermazione che fa sull’identità. L’immensità ci ricorda che la nostra identità non è qualcosa che acquistiamo, ma che costruiamo e raggiungiamo sulla base delle relazioni umane che intrecciamo. É il frutto di interazioni e interrogazioni a cui sottoponiamo noi stessi e le persone che incontriamo e che amiamo di più. Ad esempio, le nostre madri.
L’immensità di Crialese è un film di sguardi
In conferenza stampa Emanuele Crialese ha raccontato di aver scelto Luana Giuliani, che nel film interpreta Adriana ed è qui alla sua prima prova attoriale, per lo sguardo. Uno sguardo che lo riportava nel passato, a vedere di nuovo i suoi genitori, in particolare sua madre, interpretata dalla divina Penélope Cruz. Lei che è stata sua complice e sua vittima, intrappolata tanto quanto lui: l’una in una situazione familiare distruttiva; l’altro anche in un corpo che non aveva scelto. Affrontare questa sofferenza insieme ha creato empatia, ma lo ha anche caricato della responsabilità di un dolore che non poteva controllare, indirizzare, gestire.
Crialese: la decostruzione di un punto di vista privilegiato
Gran parte del lavoro degli sceneggiatori Moroni e Manieri in questo film è stato sul punto di vista da adottare. Quello scelto è stato subito quello dei bambini, che cercano disperatamente qualcuno che li guidi ma che non lo trovano dove solitamente dovrebbe essere, tra le figure genitoriali. Lo cercano quindi altrove, in tv, per esempio, nei varietà, nelle canzoni, fuori casa, sperando che scenda anche dall’alto.
Ma il punto di vista di una storia è inevitabilmente anche quello del regista, di un uomo, che nella società in cui viviamo oggi è in carne ed ossa il punto di vista privilegiato. Tuttavia, Crialese vi coincide in parte, come ha precisato presentando il suo film. E non è la sua parte migliore. «La donna è la parte migliore dell’uomo che sono, è quella dentro di me, è l’oggetto dei miei desideri, è lei che ascolto più volentieri». Perchè la donna ha per necessità dovuto essere battagliera e il regista si riconosce in queste lotte intraprese per l’affermazione di sè, della propria voce, della propria libertà.
Così, quando ad essere adottato è questo punto di vista, necessariamente i confini di libertà verso cui tendiamo si spostano. Crialese li ha abbattuti nel suo incontro con l’arte cinematografica, li abbatte ogni volta che ricrea delle storie al cinema e mette in scena delle prove di coraggio. Perchè a molte cose ci hanno abituato i nostri tempi: siamo più tolleranti verso molte situazioni, ma il coraggio ancora spaventa.
Giorgia Lanciotti
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