Nei ricordi d’infanzia di ognuno c’è sempre un episodio in cui qualcuno, più grande e più prepotente di noi, ci ha offesi, fatto un torto, un dispetto, o del male fisico. Spesso, questo qualcuno veniva punito dagli adulti di riferimento, ma a volte, succedeva anche che queste figure autoritarie ci prendessero in disparte per dirci: “Certo, X ha sbagliato, però anche te.. è colpa tua, l’hai provocato.” Credevamo che essere incolpati ingiustamente per qualcosa che non avevamo fatto, fosse una cosa da rilegare alla fanciullezza eppure, quel modo di fare, viene traslato in maniera spaventosa nel mondo degli adulti. Questo mostro si chiama “Victim Blaming“.

Victim Blaming: la violenza del giorno dopo

Victim Blaming. Traduzione: la colpevolizzazione della vittima. È davvero possibile una tale atrocità? Altroché.

Nella società in cui viviamo, spesso, accade che coloro che rivestono il ruolo di vittima, vengano indotti a credere di essere stati colpevoli di quanto capitato loro. Vengono indotti ad assumersi la responsabilità dei fatti a causa di un loro dato atteggiamento o comportamento.

Il concetto di colpevolizzazione della vittima fu coniato per la prima volta nel 1971 da William Ryan: fu il titolo del suo libro, “Blaming the victim“, in cui criticava il saggio di Daniel Patrick Moynihan, “The Negro Family: The Case for National Action“, nel quale, l’autore parlava delle sue teorie sulla nascita dei ghetti e sulla povertà intergenerazionale. Ryan criticava questo pensiero sostenendo che si trattasse soltanto di un tentativo di rendere responsabili i modelli culturali e i comportamenti dei poveri della propria povertà, per l’appunto, colpevolizzare la vittima. Successivamente, tale termine fu adottato in ambito legale, in particolare, nella difesa delle vittime di stupro, accusate di aver contribuito alla realizzazione del crimine.

Come anticipato, i soggetti che vengono colpiti da questo fenomeno, sono principalmente donne. Questo accade perché è un meccanismo che si genera a partire da una cultura misogina in un sistema patriarcale, in cui, se una donna viene picchiata e stuprata da un uomo, il problema non è l’uomo che ha compiuto tale orrore, bensì colei che l’ha subito perché “sicuramente” indossava qualcosa di indecente, o l’avrà portato all’esasperazione con il suo comportamento. Si cerca ad ogni costo un capro espiatorio per giustificare l’agire maschile.

Inoltre, la vittima viene sottoposta ad una seconda aggressione detta “vittimizzazione secondaria” oppure, dall’inglese, “post-crime victimization“, esercitata dalle istituzioni. La vittimizzazione secondaria si manifesta quando, le cosiddette “agenzie di controllo”, ovvero medici, sanitari, polizia e magistratura, non credono alla versione fornita dalla vittima e, conseguenzialmente, viene accusata di falsa testimonianza e di aver provocato l’attacco in sé. Tutto ciò, viene creato anche con l’aiuto dei mass media, specie nel settore giornalistico, che lascia la sventurata in pasto al giudizio dell’opinione pubblica.

Ultimamente, in tv abbiamo assistito a diverse scene in cui il vicitim blaming si è manifestato, lasciando l’amaro nella bocca di tutti coloro che vi hanno assistito. (Caso Palombelli, caso Dayane Mello, etc.) Dunque, il Victim Blaming è un’altra, l’ennesima, forma di violenza. Definibile come “la violenza del giorno dopo”.

Esempi di contrasto al Victim Blaming

Per contrastare questo fenomeno, sono nate varie iniziative, come ad esempio il movimento globale #MeToo, nato qualche anno fa.

L’unico modo veramente possibile di sconfiggere tale sciagura è fare informazione, più informazione possibile, premendo sull’empatia collettiva. Nel 2013, fu realizzato un progetto, opera di Jen Brockman, direttore del “Ku’s Sexual Assault Prevention and Education Center” e della dottoressa Mary Wyandt-Hiebert, in collaborazione con l’Università del Kansas, intitolato “What were you wearing?”, “Come eri vestita?”, citando l’interrogativo che viene posto più di frequente a tutte le donne che denunciano il proprio stupro.

Il progetto prevedeva la messa in mostra degli abiti indossati dalle vittime nel momento esatto in cui avevano subito violenza; lo scopo di ciò era proprio creare nuove consapevolezze in merito al tema degli abusi sessuali e del victim blaming, smontando così i falsi stereotipi che giustificano il tutto. Sul Victim Blaming ci sarebbe ancora molto altro da dire e da sviscerare ma non basterebbero i caratteri consentiti in questo articolo. E’ importantissimo però che chi subisce questa forma passivo-aggressiva di violenza, non si faccia coinvolgere dal senso di colpa, convincendosi della distorsione della realtà, e che entri subito in contatto con una figura specializzata che possa effettivamente dimostrarle che ad essere sbagliata non è lei ma gli altri. Fare victim blaming è una violenza a tutti gli effetti e va riconosciuta come tale.