Watchmen | Recensione settima puntata

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Di Redazione Metropolitan

Ci avviciniamo alla fine della serie “Watchmen” targata HBO e scritta da Damon Lindelof. Dopo gli scorsi e deludenti sei episodi, come ci è sembrata questa settima puntata?

Settima puntata di “Watchmen” che si apre con Angela Abar (Sorella Notte), la quale, dopo aver rivissuto l’intera vita di Will Reeves (alias Giustizia Mascherata), viene curata da Trieu con una sorta di “metadone per Nostalgia” (di fatto, tenta di restituirle poco alla volta i propri ricordi). Angela, dopo il coma, scopre che Trieu sta progettando di salvare il mondo agendo in segreto contro il Settimo Cavalleria, il cui intento è quello di trovare il Dottor Manhattan e appropriarsi del suo potere per garantire la supremazia bianca.

Watchmen | Recensione settima puntata
Photo credit: WEB
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Questo episodio ha una caratteristica che tutti i suoi predecessori non possedevano: la linearità. Lo svolgimento è molto più lineare e semplice rispetto alla terribile prima triade e alla lievemente migliore seconda triade. Tutto questo perché, come già anticipato su questi lidi, visto quanto fosse stato seminato, nelle ultime puntate, i – tanti, troppi – nodi sarebbero venuti al pettine. In sostanza, avremmo avuto lo spiegone.

Lo spiegone lo abbiamo avuto già due puntate fa, quando Joe Keene si è rivelato essere il capo del Settimo Cavalleria e del Ciclope, altra organizzazione razzista. Ma Laurie, sempre più un misto tra Humphrey Bogart ed Hercule Poirot, capisce al volo il coinvolgimento del defunto capo della polizia Crawford nel Settimo Cavalleria/Ciclope. E ci riesce nel modo meno letterario possibile: Angela, in coma, ha rivelato che Will era Giustizia Mascherata e che era sulle tracce del Ciclope.

Questo è l’assist più infantile che si sia mai visto. Ricorda, in parte, la scena di Carmine Falcone che, sotto allucinogeni, identifica il nome dello Spaventapasseri in “Batman Begins”, ma lì serviva solo a nominare un personaggio che, comunque, di lì a poco si sarebbe rivelato a tutti. Sapere che, in una scena non vista, Angela ha parlato del Ciclope e della vera identità di suo nonno frattanto che era in overdose da allucinogeni è ridicolo, e, nondimeno, la semplicità con cui Laurie capisce il coinvolgimento di Crawford è stucchevole. Soprattutto perché: se era così semplice arrivarci, perché non si è immaginata che anche la moglie fosse coinvolta?

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Sembrano i colpi di scena usati nelle storie di “Diabolik” negli anni Sessanta, quando al re del terrore bastava il Pentothal per far confessare le sue vittime. Per quanto fosse delirante l’idea di un allucinogeno che agisce tramite nanomacchine, la sua ragione narrativa è stata ancor più delirante. Uno snodo di trama dei più sbrigativi, utile a sciogliere degli enigmi che gli sceneggiatori non parevano in grado di risolvere.

Poi, la tematica del razzismo, già ampiamente criticata da noi per il modo in cui è stata trattata, in questa puntata raggiunge livelli imbarazzanti. Un’organizzazione di potere, con a capo un senatore che aspira alla presidenza, ha intenzione di uccidere e appropriarsi del potere del Dottor Manhattan solo per il predominio della razza bianca? Queste sono le aspirazioni che hanno i cattivi in questa serie? Il dominio dei bianchi? Con il potere del Dottor Manhattan potrebbero conquistare l’universo, creare nuovi pianeti, creare universi di supereroi (vedi “DC Rebirth“) e l’unica cosa che bramano è annientare gli afroamericani?

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Angela Abar che, da bambina, decide di diventare poliziotta solo perché identifica un collaboratore dei Viet Cong? La poliziotta le regala il suo distintivo capendo che sarà una collega in futuro? Ma ce ne rendiamo conto? Quando si parla di dare delle “motivazioni” ai personaggi, si chiede di studiarle, non di scrivere cose così vecchie e sentite buttate alla buona solo perché non si ha la voglia.

Infine, l’ultima scena, quella dove ci viene rivelato che il Dottor Manhattan si nasconde in Cal, il marito di Angela. Tralasciando il fatto che se è da diversi anni rinchiuso in quel corpo, questo annulla la continuità che lo vedrebbe come demiurgo dell’Universo DC; ma poi, in tutto questo marasma di incoerenza, perché dovrebbe trovarsi rinchiuso in Cal? Qualsiasi spiegazione, lo diciamo, non sarà soddisfacente. Il superuomo più potente di ogni storia, è stato rinchiuso in un anello che rappresenta l’atomo di idrogeno dentro alle tempie di Cal?

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In ultimo, dopo la pappardella di Veidt su quanto accadde nel 1986, perché ci sono voluti trentatré anni per attuare questo piano? Non sarebbe stato molto più logico iniziare prima, piuttosto che aspettare l’affermazione di Trieu come genio della chimica e della tecnologia?

Ultima menzione per gli orpelli: perché, in ogni singola puntata, si ha la necessità di avere un elemento di scalpore? Che senso ha che Veidt risponde con una flatulenza all’interrogatorio? E non ci poniamo neppure la domanda sul perché della storia di Veidt, per quello attendiamo lo spiegone.

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Per rispondere alla domanda: come ci è sembrata questa puntata? Penserete brutta. E invece no. Senza alcun dubbio è la migliore dal punto di vista narrativo. Il problema è la scrittura generale. Il colpo di scena del coma è indifendibile come parte della trama orizzontale, ma nella puntata in sé funziona.

MANUEL DI MAGGIO

Ecco la recensione della sesta puntata

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