Il Tibet verrà sottratto una volta per tutte allo sfruttamento da parte dei monaci e alle mire delle nazioni imperialiste”. Così dichiara il Grande Leader Mao Tse Tung in occasione delle celebrazioni per la sconfitta dell’esercito nazionalista di Chang Khai Shek e della dichiarazione della Repubblica Popolare Cinese. Siamo il primo ottobre del 1949 e l’indipendenza del Tibet si avvicina alla sua fine.

La questione tibetana è una spina nel fianco dell’ingombrante vicino cinese da tempo immemore. Quasi cinquant’anni prima, nel 1909, la Cina ha già occupato il Tibet, in risposta alle ingerenze sempre più forti della Gran Bretagna sul territorio e della creazione di un accordo commerciale successivo all’arrivo nella capitale Lhasa dell’esercito inglese cinque anni prima.

28 marzo 1959: La Convenzione di Simla

Con la convenzione di Simla del 1914, il “grande gioco” britannico fa la sua mossa. Propone la suddivisione del Tibet in due zone: una interna, sotto il diretto controllo cinese, ed una esterna, nominalmente protettorato cinese ma di fatto legata a doppio filo con la potenza imperiale d’Oltremanica, terrorizzata dalle mire dell’impero zarista verso sud. Il Tibet è un cuscinetto fondamentale per tenere l’Impero russo lontano dal proficuo protettorato indiano. Poco male che la controparte rifiuti sdegnosamente la proposta. Il millenario Impero cinese si è volatilizzato due anni prima e la neonata Repubblica Cinese non ha le risorse per dettare i giochi.

Così il Tibet diventa una teocrazia indipendente a cui capo c’è il tredicesimo Dalai Lama. Nei successivi trent’anni, non bastasse la Prima Guerra Mondiale e la fermentazione dei conflitti intestini tra il Partito Popolare Cinese di Mao Tse Tung e l’esercito nazionalista di Chang Khai Shek, il Giappone preme per annettere i territori della Manciuria. La questione tibetana passa giocoforza in secondo piano. Il Tibet mantiene una posizione di perfetta equidistanza dalle potenze che lo circondano. Nel 1938 il governo tibetano accogliere i membri di una spedizione pseudo-scientifica nazista, alla ricerca di tracce del sotterraneo regno di Xambala, presunta patria dei più puri rappresentanti della razza ariana. Ma a prescindere da chiunque detenga il potere in Cina, una questione rimane in sospeso come un fastidioso sassolino nella scarpa. “Il tetto del mondo” è un affare cinese, e cinese deve tornare il prima possibile. Esattamente come lo è stato dal 1720  al 1912, durante il periodo della Dinastia Quin.

La Repubblica Popolare Cinese

Arriviamo alla presa del potere di Mao, e la questione tibetana torna immediatamente a galla. L’apparente finalità del nuovo intervento è chiara: liberare l’altopiano dalle millenarie regole feudali che ne governano la vita economica e la teocrazia vigente, così in contrasto con il laicismo socialista cinese. Ma il Tibet rimane ancora quella così preziosa regione cuscinetto, soprattutto ora che l’India si è liberata dal gioco britannico e sembra avere le carte in regola per potersi a breve affermare come una potenza egemone nell’area. Una regione cuscinetto tanto arida in superficie, quanto ricca di preziosi minerali sottoterra. Oro, ferro, rame, bauxite. Miliardi di tonnellate. Questa volta il Tibet è solo: L’inghilterra non è più di casa, e l’India non ha alcuna intenzione di contraddire lo scomodo vicino. Gli stessi Stati Uniti sono impegnati nella guerra di Corea, attirando l’attenzione mediatica internazionale. La neonata ONU è sorda alle richieste di aiuto tibetane: solo El Salvador tra tutti i membri spende parole d’accusa nei confronti dell’imminente aggressione.

Il 7 ottobre 1950 cinquantamila soldati dell’esercito cinese entrano in Tibet e accerchiano la città di Chamdo. Dopo due giorni, i meno di diecimila soldati tibetani, quasi tutti volontari e mal equipaggiati, capitolano. Nei successivi sviluppi della campagna di invasione, le truppe cinesi travolgono con facilità la flebile resistenza tibetana e prendono possesso di tutti i maggiori centri del paese. Il passo successivo è la forzata stipula del cosiddetto “Trattato di liberazione pacifica del Tibet” nella versione cinese o “Accordo dei 17 punti” secondo la politica internazionale. Una pace armata che di fatto riconosce l’annessione dell’intero territorio del Tibet alla Repubblica Popolare Cinese. Eccetto le relazioni di politica estera, il governo tibetano avrebbe potuto continuare la gestione della politica interna. Ma l’impervio territorio tibetano ben si presta a sacche di resistenza autoctona all’invasore.

La rivolta di Lhasa

L’occupazione militare dei principali centri nevralgici del paese e le continue vessazione dell’esercito occupante nei confronti della popolazione creano le condizioni ideale per la nascita di una qualche forma di resistenza, soprattutto nelle zone nord-orientali del paese. Il Dalai Lama organizza diversi incontri con le controparti cinesi a Pechino per evolvere la situazione, ma invano. Rastrellamenti, distruzione dei monasteri, sistematiche rappresaglie e indiscriminate esecuzioni di presunti spalleggiatori dei rivoltosi sono materiale quotidiano. Un bubbone che scoppia definitivamente nemmeno dieci anni dopo. A colmare la misura le voci secondi cui il governo cinese avrebbe in progetto di sequestrare il Dalai Lama, costretto dall’esercito a recarsi senza scorta presso in quartier generale cinese durante i festeggiamenti del Monlam Chenmo, la festa della Grande Preghiera.

Dal 10 marzo 1959 la rivolta di Lhasa apre a diverse insurrezioni che iniziano a scoppiano a macchia di leopardo su tutto il territorio tibetano. Mentre Il Dalai Lama cerca di ricucire lo strappo, la Cina ne chiede una destituzione volontaria. E da il via ad una rappresaglia spietata. Un’intera divisione dell’esercito cinese si avventa sulla capitale, radendo al suolo il palazzo di Potala e migliaia di abitazioni. I morti, tra insorti e vittime civili, si contano a decine di migliaia. E’ il 28 marzo. E mentre il Dalai Lama trova asilo politico presso il governo indiano di Nuova Dehli, la Repubblica Popolare Cinese il 5 aprile 1959 dichiara ufficialmente sciolto il governo tibetano. Alcune regioni andranno a costituire quella che sarà la Regione Autonoma del Tibet; tutte le altre verranno annesse alle province cinesi già esistenti.

Andrea Avvenengo

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