Amelia Rosselli e la “poesia musicale”. Amelia Rosselli è una poetessa ed etnomusicologa italiana oltre che organista. Si può annoverare tra i poeti italiani più importanti venuti alla luce nel quarto decennio del XX secolo. Nata a Parigi e figlia dell’esule antifascista Carlo Rosselli (fatto uccidere da Mussolini e Ciano in Francia nel 1937), Amelia si sentirà sempre una apolide e questa sarà una costante della sua poetica. Morirà suicida nel 1996 a causa di una grave depressione.
L’approccio artistico innovativo di Amelia Rosselli
La sua particolarità poetica è insita nell’approccio alla composizione dei versi simili alla composizione musicale; lei stessa scrisse: “Una problematica della forma poetica è stata per me sempre connessa a quella più strettamente musicale, e non ho mai in realtà scisso le due discipline, considerando la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono, e il periodo non solo un costrutto grammaticale ma anche un sistema. […] Ma se, degli elementi individuabili nella musica e nella pittura spiccano, nel vocalizzare, soltanto i ritmi (durate o tempi) ed i colori (timbri o forme), nello scrivere e nel leggere le cose vanno un poco diversamente: noi contemporaneamente pensiamo. In tal caso non solo ha suono (rumore) la parola; anzi a volte non ne ha affatto, e risuona soltanto come idea nella mente”.
L’Arte è universale e la sua creazione deriva da processi univoci in grado di decretare attraverso vibrazioni sentimentali la nascita della Bellezza artistica. Il “plurilinguismo rosselliano” indica la facoltà di unificare l’uso della lingua con la scrittura musicale e non solo.
La tematica poetica costante è rappresentata da un tormento interiore dovuto all’impossibilità della vita di offrire ciò che lei vorrebbe, un problema esistenziale che non riuscirà mai a risolvere. Ella infatti scrive in una sua poesia: “Conto di farla finita con le forme, i loro/ bisbigliamenti, i loro contenuti contenenti/ tutta la urgente scatola della mia anima la/ quale indifferente al problema farebbe meglio/ a contenersi. Giocattoli sono le strade e/ infermiere sono le abitudini distrutte da/ un malessere generale”. Amelia soffriva di tanti piccoli fastidi, tra cui anche una malattia grave come il morbo di Parkinson, ma ostinatamente rifiutava qualsiasi tipologia di cura. Abbozzava questi versi la grave volontà di togliersi la vita, nel solito stile solenne che la contraddistingueva.
Ma la poetessa aveva avuto anche un periodo meno solitario, si tratta dell’arco temporale precedente alla fase finale e più triste della sua esistenza. Essa frequentava il “Gruppo 63” un insieme di intellettuali unitisi per contestare la poesia tradizionale tipica degli anni cinquanta. Tra questi Amelia frequentò soprattutto Andrea Zanzotto, Giovanni Raboni e Pier Paolo Pasolini. Fu proprio quest’ultimo che riuscì a farle inserire maggiore espressione nei suoi testi. Amelia scrive nell’opera “Una scrittura plurale”: “V’è il poeta della scoperta, quello del rinnovamento, dello dell’innovamento…(Io sono un poeta) della ricerca. E quando non c’è qualcosa di assolutamente nuovo da dire, il poeta della ricerca non scrive”. Il poeta deve saper tacere oltre che saper scrivere. Deve saper riconoscere l’attimo in cui giunge l’ispirazione perchè come disse lei stessa: “La poesia o è ispirata o non vale niente”.
Giusy Celeste
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